BLOODY MUZZARE'    

                                                                                                                                                 

Bloody Muzzare' 2004   ed.LECONTE coll. I TROVATORI

Postfazione di Antonio Pascale

 

Tuttavia ho buone speranze, giuro, di potere un giorno raccontare una storia, ancora una, con degli uomini, della specie di uomini, come al tempo in cui non sospettavo nulla , o quasi. (Samuel  Beckett, Testi per nulla)

Ciò non è dunque senza rapporto col fatto elementare che l'italiana è sostanzialmente l'unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio.  (Gianfranco Contini, introduzione a La Cognizione del Dolore Di Carlo Emilio Gadda)

La palla al piede   Non sempre si vede  Ma c'è. (Alberto Arbasino, Rap!)

 Al bar Centore qualcuno ha sparato e ucciso. La vittima è Nicola Vastano, allevatore di bufale, freddato insieme a una tazzina di caffé fumante. Don Larco, invece, muore ammazzato nella parrocchia di San Giovanni Battista, mentre sta officiando la messa.

Attilio Del Giudice torna a raccontare le indagini del commissario De Grada e del Brigadiere Capece in un poliziesco che - attraverso il peculiare pastiche linguistico a cui ci ha abituato - non punta tutto sul plot, ma anche su efficacissimi coprotagonisti..

 

 

L'ASSO NELLA MANICA ( in risvolto di copertina)

I have a dream...Ahimé è solo un piccolo sogno domestico ma, caro lettore, te lo voglio comunicare, perchè ti riguarda: vorrei che Bloody Muzzare' ti piacesse, che, in certi momenti, ti facesse sorridere e ti desse allegria e, in altri, ti emozionasse, ti indignasse come cittadino e ti suggerisse qualche riflessione. Tutto qua, ma non è poco per me.

Voglio dirti, poi, un'altra cosa: se le persone e i fatti descritti in questo romanzo, fossero molto simili a persone e fatti della vita reale, tieni presente che sarebbe una pura casualità, infatti sono tutti, fatti e persone, frutto di immaginazione. Invece le condizioni del vivere civile, la dimensione morale, il fondale sociale insomma, non sono casuali. Assolutamente no! Naturalmente non li ho presi dalla realtà e trasferiti pari pari nella finzione narrativa (d'altronde un trasferimento meccanico non sarebbe mai possibile, perché c'è sempre di mezzo il filtro dell'autore con la sua angolazione visiva, le sue cadenze, la lingua, l'elaborazione nei comportamenti dei personaggi, lo stile, ecc.) ma, ti assicuro che, da parte mia, c'è stato un costante sforzo di "inveramento".

Non me la sento di dire, apoditticamente, che tale sforzo, tale volontà e cognizione debbano necessariamente corrispondere alla deontologia dello scrittore in generale, ma, credo, che non siano estranei a un sentimento del dovere, al sentirsi in pace con se stessi, con la propria coscienza di facitori di storie. Ti ringrazio.    a.d. g.

 

L'INCIPIT

L'inverno, quell'anno, tutto sommato era stato mite ma con l'entrata ufficiale della primavera aveva voluto fare il suo canto del cigno. Marzo, si sa,è pazzoide, però cinque giorni consecutivi di pioggia gelata e un vento di tramontana che scendeva dai monti come un castigo, a bruciare i fiori di pesco e di mandorlo che già da tempo erano comparsi nelle vallate, e a infilarsi in tutte le fessure delle case con paurosi ululati, non lasciavano pensare a un capriccio passeggero. "Accattammece o' capitone, che mo vene Natale!" diceva la gente. Invece, domenica, San Teodoro vescovo, venne la bella giornata.

 

 

            POSTFAZIONE

   di ANTONIO PASCALE 

Io credo che quello che avete appena letto non sia un giallo, almeno non un giallo propriamente detto. Del Giudice, allo svolgimento del tema classico: misterioso omicidio – indagine – soluzione, preferisce (una fondamentale e poco usata) variazione sul tema, ovvero, sappiamo già chi ha ucciso (in sostanza dall’inizio), anche perché in fondo (come lettori), bene o male, prima o poi, lo sappiamo sempre chi è l’assassino. Meglio, allora, analizzare e argomentare con perizia narrativa (e del Giudice la possiede), le conseguenze di un omicidio: quando uccidi qualcuno, nell’attimo in cui gli spari, annulli, non solo tutto quello che la vittima è stata finora, ma tutto quello che sarebbe potuto essere. Questo, ne sono sicuro, lo pensa anche Del Giudice.

 Infatti, il suo sguardo cade con più acutezza sul mondo della vittima e non solo sull’accerchiamento dell’assassino. Del Giudice sembra suggerire, qua e là, nei numerosi sottotesti: che importa come si arriva alla soluzione finale, tanto lo svelamento del complotto omicida non elimina il male che l’ha generato.

Bloody Muzzare’ mi piace perché non evita questa riflessione.

Un‘avvertenza, qui devo mettere subito le mani avanti, purtroppo, nei miei giudizi narrativi ho in serbo caterve d’idiosincrasie e varie forme di ostilità. E purtroppo, nonostante questi umori, o forse, ahimè, proprio in funzione di questi, non riesco a rinunciare alle mie opinioni. Bene, posso dunque dirlo: a me il genere giallo non piace, nemmeno il noir. Riconosco che per un certo periodo, ha arricchito il panorama letterario italiano. Scrittori come Carlotto, per esempio, ci hanno regalato un credibile ritratto di certi mutamenti (economici e criminali) avvenuti nel nord est. Pur tuttavia la moda dei gialli, la frequenza, anzi la cadenza, con cui si pubblicano libri noir mi lascia perplesso. C’è qualcosa di non necessario in questi libri, un surplus di male, buttato lì, sulla pagina, voglio dire un surplus di male senza un’adeguata riflessione sulla sua genesi: quanti terribili omicidi, quanto sangue, quante scene del crimine descritte e, soprattutto, quanti commissari arguti, che sguardo profondo, che tecnica di indagine sopraffina…., niente, non mi convincono poi tanto.

C’è ancora una cosa che mi rende ostica la lettura di un libro giallo, la più brutta: lo stile con il quale si parla del male, ecco, quello proprio, sempre più spesso, mi è ostile. 

Ho visto una mattina in televisione un’apprezzata giallista che parlava di alcuni famosi omicidi: niente di strano, mi sono detto. L’ho seguita per tutto il tempo della sua spiegazione, ebbene c’era qualcosa che non mi convinceva. Di tanto in tanto dopo una descrizione di una scena del crimine, particolarmente efferata, lei sorrideva. Sorrideva con complicità alla giornalista che la stava intervistando.

Ora, a me lo dicono spesso: non fare il moralista. Forse hanno ragione o forse no, esagero, sono ossessivo, mi fisso, e dunque risulto parziale e limitato, però, che ci posso fare, quella sensazione di fastidio dopo l’intervento della giallista, mi è rimasta ancora oggi. Insomma, che c’è da ridere? Siccome sono fissato, ho anche provato a rintracciare la giallista, senza successo, però. Le volevo solo chiedere: ma con quella risata, volevi, forse, liberarti dall’inquietudine che il male, inevitabilmente, porta con se e allora, per nervosismo, ti sei messa a ridere, oppure, al contrario, a forza di parlarne, con rituale frequenza e appropriata cadenza, il male, appunto, non ti faceva più male? Nell’uno e nell’altro caso, mi sembrava che le mancasse lo stile per raccontare il male. Diveniva, il male, nella sua esposizione, solo tecnica di racconto, omicidio, indagine, soluzione, e così facendo (il male) si semplificava, un che di volgare faceva capolino durante quella intervista. Perché, non basta parlare del male per liberarcene, bisogna capire come se ne parla.

Attilio del Giudice ne parla in un modo che, invece, mi convince. Insomma, non mi dispiace. I suoi sono gialli sperimentali, dove alla parola sperimentazione, fortunatamente, non si accompagna l’aggettivo: interessante, ma un altro, emozionante. Insomma, strumenti narrativi per arrivare a descrivere non gli estremi, il male (l’omicidio) e il bene (la risoluzione) ma strumenti per parlare della vita che liberamente, prepotentemente fluisce attorno a questi due estremi e talvolta, accidentalmente li definisce: forse il racconto del male ha più senso (il racconto, cioè, amplia il nostro mondo interiore) solo se la vita fluisce prima e dopo l’omicidio. Insomma, chi è il commissario, che vita fa, come si integra o si confonde nel mondo attorno a lui?. Chi sono i criminali, e anche loro, che rapporti hanno con il mondo attorno? Ovvio, per rispondere a queste domande, c’è bisogno di uno sguardo diverso. In sintesi, lo scrittore deve un po’ stare in mezzo alle cose che racconta. Non può essere solo un demiurgo lontano che cerca di afferrare il male, magari facendo la voce grossa per meglio stigmatizzarlo. In questo caso, la scrittura si rivela solo affannosa, falsa, appunto: viene un po’ da ridere. Oppure, elaborando un tono freddo, cristallino, puro e sentenzioso. Anche questo tono, che i critici chiamano: tagliente, a me non piace. Da questo mi sento distante. Quel tono, e quello che sottintende, certo, mi impressiona per la freddezza, la rarefazione, ma, allo stesso tempo, m’allontana dal punto focale del racconto. Penso, meno male, non sono così, posso stare tranquillo.

Posso stare tranquillo: quando un lettore pensa questo è perché lo scrittore non si sente parte in causa. Per me è un errore, lo scrittore c’entra con il mondo, a questo ne è vischiosamente legato, ne è padre e figlio, nello stesso tempo, del male, vittima e carnefice. Dunque, a noi scrittori, ci corre l’obbligo non tanto di mostrare il male (magari assoluto, come un barbaro omicidio) fuori di noi, quello, in fondo ci consola, né tanto meno il bene, sotto le sembianze di commissari o simili (pure quelli, siccome hanno funzione eroica, in fondo ci consolano), ma (dobbiamo mostrare) le nostre contraddizioni (di noi scrittori), anche se tormentate e conflittuali.

Lo scrittore che a me piace, sia esso, accidentalmente un giallista, o magari scriva di fantascienza o di chissà cos’altro, è, in fondo, una persona che attraverso un elemento di finzione (la narrazione) cerca di dichiarare la verità, cerca di mettere in scena la sua coscienza. Ora, uno scrittore che si rispetti, sa sempre cos’è la verità. Naturalmente, per lui la verità non è prassi quotidiana, ovvio, la verità per uno scrittore è il tentativo di elaborare una coscienza di sé, coscienza che prende forma e corpo ogni volta che si instaura un processo di relazione tra il suo mondo interiore e il mondo esterno, tra le sue motivazioni più profonde, più segrete, e le conseguenze di queste motivazioni sul mondo esterno, e quali sono i limiti che segnano questi mondi, quali i confini. Per far questo c’è bisogno di fantasia. La verità come diceva Freud, ci libera, ci consola, sì, ma dopo un doloroso processo di analisi, un processo durante il quale la nostra mente coscia (razionale) si riavvicina a quella inconscia (irrazionale), a prezzo, però, di tormenti e difficoltà, perché tormentosa e difficile è l’arte dell’immaginazione. La conoscenza richiede, appunto, immaginazione. Così, a percorso finito ci avvolge una strana armonia, non ci siamo liberati dal male, abbiamo solo portato il nostro dolore in una dimensione di infelicità comune, contro la quale siamo meglio attrezzati.

Nel 406 a.c. Sofocle scrisse il Filottete. La tragedia narra di Ulisse e Neottolemo (figlio di Achille) che tornano nell’isola di Lemmo per riprendere, appunto, Filottete. Chi è costui? Un arciere, potente. Dotato di un arco magico, infallibile. C’è soltanto un particolare: Filottete è un eroe che soffre, lo tormenta una ferita alla gamba che non si rimargina, immagino qualcosa di psicosomatico, una psoriasi. Fatto sta che urla e si lamenta, per questo, Ulisse, nove anni prima, l’aveva abbandonato su quest’isola. Non voleva sentire più i suoi lamenti. Adesso hanno bisogno di lui, ma Ulisse cerca di convincere Neottolemo a ingannarlo, a prendergli solo l’arco, e lasciarlo lì, sull’isola. Gli dice: ingannalo! Lo so che tu sei un uomo onesto, ma adesso dobbiamo vincere, domani, poi, avrai tempo per essere onesto, adesso menti. Prendi solo l’arco!

 Neottolemo, invece, non lo inganna, capisce che per vincere bisogna portare l’arco e l’arciere, la potenza e la ferita, il bene e il male. Ulisse con la su mente pratica (e cinica) capisce solo quello che gli fa comodo capire, non ha immaginazione. Wilson, uno dei maggiori critici americani, scrisse che Ulisse, in questa tragedia, ricorda il politico moderno, quello che mente per ottenere la vittoria. Ma quella vittoria è parziale, per vincere bisogna portare l’arco e la ferita, queste due cose sono moralmente legate.

(Lo psicologo) Del Giudice mi piace come scrittore perché sulla pagina porta entrambe le cose, l’arco e la ferita, e ci riesce perché, (lo psicologo, l’uomo e lo scrittore) Del Giudice è parte in causa di quello che racconta.

Ora, noi due veniamo da Caserta. Sappiamo bene che significa abitare al sud. E non voglio solo parlare delle presunte difficoltà civili, quelle lasciamole stare. Detto meglio: sappiamo cosa significa abitare al sud perché sappiamo quando è difficile scrivere del sud. Negli anni molti di noi scrittori (del sud), siamo stati vittime (e carnefici) di uno strano stile narrativo (e purtroppo di vita), ironico perché tentiamo di negare continuamente la ferita che ci fa soffrire, oppure grottesco (bizzarro, estremo, estetizzante) perché ci fidiamo solo della forza dell’arco. Del Giudice, che ha immaginazione, ci ha pensato (e a lungo) a come scrivere del sud.

Ha portato insieme le due anime del sud, quella leggermente ridanciana, del qui e ora, l’anima di quello che non si mette mai di spalle alla vita, vitale, insomma il maresciallo Capace e quella critica, profonda, riflessiva, amara perché tormentata e tormentata perché cosciente della propria finitudine, appunto il commissario De Grada. Li fa indagare insieme (coraggiosa novità nel panorama giallistico italiano) perché solo portando entrambe le anime si può sperare di arrivare a uno straccio, un abbozzo di soluzione. Straccio e abbozzo, appunto, nulla è definitivo, tutto è conflittuale.

E quale stile può esprimere al meglio questa stato di conflitto? Del Giudice non cerca troppo lontano, parla con la voce (la cadenza, il dialetto, l’inflessione) della provincia.

Bloody Muzzare’ è il terzo episodio della trilogia (il più bello e profondo), aperta con Morte di un carabiniere e proseguita con Città Amara (entrambi ed. Minimum Fax). Quando uscì il primo libro qualche critico parlò di stile barocco. Ora, saranno le mie idiosincrasie, ma Del Giudice, con il barocco, fortunatamente, non ha nulla a che fare.

Nella sua scrittura, non c’è allegoria, ne strani segni da decifrare per penetrare il labirinto barocco. Quello di Del Giudice è il tono della provincia (della sua Caserta, una città che ha amato e che lo ha tormentato e che lui stesso ha tormentato perché l’ha amata), un tono così intonato: sbilenco, botta e risposta, oppure solo botta, la risposta arriverà dopo, digressivo perché imperfetto, che prende e ingabbia quello che passa, lo sospende, lo immagazzina, lo lascia andare, marchiato a vita e poi lo riprende ancora, e in tutto questo andare, (questo stile aperto), accoglie la vita che passa e continuamente la rinnesta.

 Così scrive del Giudice, apre e chiude, fa vento e si respira, chiude tutto e si soffoca. Sono testimoni di quanto suddetto, tutti gli splendidi episodi minori, profondi brani di uno stile di vita di provincia, che, nel libro sviano sia il lettore dalle indagine (e meno male) sia i due indagatori dal caso (e meno male), ma che poi accidentalmente (questi episodi minori) fanno meglio riprender il filo del discorso (sono, infatti, belli come la vita), anzi sia il lettore sia il duo investigativo, Capace – De Grada, si ritrovano più ricchi, e insieme, anche, più disillusi.

La disillusione (sentimento che ha De Grada come referente), questa strana e bistrattata emozione, è in realtà un’autentica e profonda forma di conoscenza (gli antichi contadini lo sapevano), perché perlomeno ci permette di misurare la distanza che passa tra i nostri sogni, le chimere, e la realtà.

Dunque, quando uccidi togli alla vittima quello che è stato finora e quello che sarebbe potuto essere. Del Giudice lo sa, per questo accanto ai personaggi classici del giallo: gli assassini, gli assassinati e gli indagatori, Del Giudice mette loro vicino, come sostegno e rinforzo, la realtà, non una realtà cristallizzata come un’ideologia, ma la realtà che si svolge, penetra e si dipana nella sua stessa vita. Eccola qui, è composta di due anime, una ferita, l’altra magica, sono imperfette perché per niente astratte, piene di bozzi e frammenti sparsi (perché, poi, i pezzi bisogna avere il coraggio di ricomporli). Questa vita è un elemento catalizzante, non rimuove la ferita, e sostanzialmente, genera un’empatia non prevista che ci fa imparentare con tutto quello che esiste, così che, nella lettura del romanzo, ci farebbe sentire la mancanza anche di un solo elemento, utile o inutile che sia.

 

 

La Critica

 

Una trilogia noir per Del Giudice

In molti sostengono che un noir sia solo un giallo un po’ più cruento, dai toni forti, accesi. Semplicemente: con i suoi attori, le sue coordinate. Giusta osservazione: entrati nello schema, lo schema ci ripagherà. Ma è visione parziale, e mai vera fino in fondo. Sotto la scorza del genere, spesso si nasconde ben altro. Del resto, persino autori come Leonardo Sciascia hanno preso a prestito e a pretesto la cornice del giallo per raccontare cosa si nasconda nelle pieghe dell’animo umano, quali traiettorie ci spingano nei territori impervi tra verità e menzogna dove si offusca il senso profondo della giustizia. Dunque: il noir è un noir, ma non sempre - anzi, quasi mai - è soltanto un noir. Ce lo conferma Attilio Del Giudice, casertano, psicologo e artista d’avanguardia da non molto tempo felicemente prestato alla narrativa. La parte terza del suo lavoro - Bloody muzzarè, edito da Leconte (pagg. 151, euro 15), fa seguito a Morte di un carabiniere e a Città amara pubblicati nel 1098 e nel 2000 con Minimum fax - è un insolito viaggio in un Sud che sovrappone arcaismi consolidati e tracce di confusa modernità. Come - dal suo fronte - Massimo Carlotto ci ha servito contraddizioni, fragilità e incongruenze di un’area del paese, il Nordest, travolta da improvviso benessere. Forse non è un caso che Del Giudice sarà quasi certamente tradotto in Francia alla stregua di Camilleri, Ferrandino, Serio, Montesano, Evangelisti. Serge Quadruppani, scrittore e mitico editor di gran fiuto, ha già chiesto i diritti della trilogia per proporla sul mercato transalpino. Un interesse che non sorprende: Del Giudice, nei suoi romanzi, riassume i caratteri della tragedia mediterranea e rimescola quel vago sentore di malinconia che fissa i personaggi, come a legarli al destino stesso della loro casa madre (si pensi a Montale, il detective italo-marsigliese di Jean-Claude Izzo, o alle figure del catalano Martin come dell’algerino Khadra). In Bloody muzzarè il commissario De Grada e il neo brigadiere Capece indagano su due fatti di sangue solo in apparenza slegati: l’omicidio in chiesa di un parroco, don Larco, e quello del titolare di un caseificio, Nicola Vastano, colpito mentre beve un caffé al bar. I killer sono personaggi programmaticamente svelati (tanto che i loro ritratti aprono il romanzo). Esistenze rivolte al male, dopo essere state piegate in gioventù dal male stesso che cova in una terra che non dà scampo. Del Giudice non si ferma allo svolgersi fitto degli eventi. Non si fa travolgere dalla carambola degli omicidi commessi da una spietata banda di piccoli e mediocri camorristi. In sostanza, allo scrittore interessa solo marginalmente dividere il bianco dal nero. Perché è attratto dalla zona grigia. Da tutto quello che ovatta il mondo di carnefici e vittime. Di vivi e morti. Universi che si toccano, talvolta arrivano pure a confondersi. È qui che Del Giudice - con una ormai riconosciuta capacità linguistica, quel solco gaddiano entro il quale amalgama con sapienza e ironia il dialetto napoletano a un italiano comunque spurio - sembra volersi fermare. Per indagare con il suo sguardo acuto, rivelatore, persino lieve. L’autore ascolta, orecchia, seziona quella violenza che si impasta a cinismo e disillusione. E riporta a galla, persino attraverso digressioni che poi sono il sale della storia, quel disagio di vivere che generalmente si manifesta quando l’osso del meridione è colpito dall’afa, nella morsa della controra. Del Giudice, in Bloody muzzarè meglio che altrove, si confronta con il «doppio». Canino e Purtuso sono i killer che ammazzano per il gusto di ammazzare; De Grada e Capece gli investigatori alle prese con i rattoppi della loro vita piuttosto che con i limiti del mestiere; Ersilia e Patrizia le diversissime donne che attraggono i detective senza afferrarli mai; il parroco e l’imprenditore - amici d’infanzia - eliminati solo perché inciampati in un preciso disegno malavitoso, un traffico internazionale di cocaina a base di succose mozzarelle. Due, in fondo, sono proprio le anime di questo angolo di Sud - la zona di confine che si allunga da Napoli a Caserta - aggredito dai fantasmi di un passato che non vuole morire. E Del Giudice ce le restituisce con una forza che proprio l’imperfezione della materia trattata rende più cupa, intensa.

IL MATTINO     FRANCESCO DE CORE

 

 

 



 


Siamo contenti di presentare questo libro per tre motivi: perché l'autore appartiene da oltre tre anni alla nostra Scuderia, perché è uno dei protagonisti de I Destrieri, la nostra prima antologia di racconti e, terzo e più importante motivo, perché il libro è davvero bello.
Sì, è un libro che si legge in poco tempo perché appassiona e diverte, senza cadute di ritmo o superflue divagazioni. Così, dopo i successi di "Morte di un carabiniere" e "Città amara", lo scrittore casertano torna ad affascinare gli appassionati del noir italiano con questo nuovo romanzo.
E l'uso del dialetto, in alcuni passi del libro, premia ancora le scelte linguistiche di Del giudice: distribuito in modo sapiente e ben dosato, ricorda lo straordinario Starnone di "Via Gemito" e ci fa anche sorridere: certi concetti non si riuscirebbero mai a esprimere con efficacia in un italiano corretto, ennesima dimostrazione di come i dialetti siano importanti nella nostra identità letteraria e nazionale.
Come si intende, più che una recensione, questo è un vero e proprio invito all'acquisto: Bloody Muzzare' è un titolo da avere in biblioteca (anche perché è un'edizione davvero bella!).

APHORISM    LUIGI DE LUCA

 



 

 

…E’ un mondo il cui paesaggio sembra ormai essere l’assenza di qualsiasi paesaggio governato con maligna determinazione… ma nel quale si insinua di continuo un tono come di commossa elegia, un profumo di mangiari di tradizione, e in cui ha decisamente la meglio la dimensione umana dei personaggi principali. ׀ Repertorio - la provincia sangue e orecchie di Attilio Del Giudice

pubbli

IL CORRIERE DEL MEZZOGIORNO FRANCESCO DURANTE

 

 

Ho appena finito di leggere "Bloody muzzarè" di Attilio del Giudice (Ed. Leconte - 15 Euro). Di questo autore avevo letto "Morte di un carabiniere" (quasi un libro di culto) e "Città amara". "Bloody muzzarè", che completa la trilogia con le vicende poliziesche del commissario De Grada e del brigadiere Capece, mi sembra il più profondo e accattivante, conservando la caratteristica scrittura di Del Giudice, decisamente al di fuori dei luoghi comuni del genere giallo. Lo segnalo con entusiasmo, perchè sono sicura che piacerà molto a molti e mi farebbe piacere sentire il parere di altri lettori.
Rossella

Mi sono imbattuto, quasi per caso, nel romanzo di Attilio Del giudice: Bloody Muzzare’ (ed. Leconte).Vorrei segnalarlo perché mi è parso notevolissimo per vari aspetti. E’ un giallo che ribalta tutti i canoni del “genere”e, nello stesso tempo, avvince, diverte e innesca  riflessioni. La lingua è contaminata da dialettismi di grande forza espressiva, e, al di là di qualche compiacimento di sapore gaddiano, mi sembra che insegua la dimensione sociale e psicologica dei personaggi (protagonisti e personaggi minori) con una forte tensione verso la realtà esterna, riuscendo, in tal modo, a delineare figure vive che restano saldamente nella memoria. Consiglio la lettura di questo romanzo  e mi piacerebbe conoscere l’opinione di altri lettori. Dario Mulas

 

 Ho seguito il consiglio di Rossella e ho letto anch'io Bloody Muzzare'(ed. Leconte, 15 euro) di Attilio del Giudice. C'è, in questo romanzo, un totale sovvertimento dei canoni del "giallo" e una lingua variegata e complessa, ma, in nessun punto il romanzo annoia. In un risvolto di copertina, l'autore, rivolgendosi al lettore, dice: "I have a dream... Ahimè è solo un piccolo sogno domestico, ma, caro lettore, te lo voglio comunicare perchè ti riguarda: vorrei che Bloody Muzzaré ti piacesse, che, in certi momenti ti emozionasse, ti idignasse come cittadino e ti suggerisse qualche riflessione".
Mi pare che questo scrittore abbia centrato in pieno tutti gli obiettivi.
MARCO G.

Consigli di lettori da "IL COMODINO" di Holden

 

 

 

Una primavera uggiosa dopo un inverno mite sembra presagire gli efferati delitti malavitosi che scatenano il terzo romanzo di Attilio Del Giudice, “Bloody muzzare’” (Leconte); il libro conclude la trilogia noir dello scrittore (gli altri due, “Morte di un carabiniere” e “Città amara”, sono stati pubblicati da minimum fax).

Casertano, tra i protagonisti dei gruppi d’avanguardia nella ricerca visiva operanti in Campania negli anni ’70 e ’80, pittore di rispetto, Del Giudice ci introduce in un paesaggio quasi sempre degradato, dominato da diffidenza, squallore e violenza, una provincia di un sud immobile, ma tutta orecchie, raccontata in una lingua in cui formule burocratiche, dialetto e dialoghi vivaci si legano in un ritmo discordante e allo stesso tempo agile e dinoccolato, come fosse una sceneggiatura. Per di più stravolgendo i canoni del genere “giallo”, a cominciare dallo svelamento dei colpevoli sin dall’inizio. Semmai, quello dell’autore è più uno spaccato sociale. Gli omicidi non sono enigmi in attesa di una soluzione. Quasi subito sappiamo chi sono gli assassini materiali del prete don Larco e del proprietario di un caseificio, Nicola Vastano (Purtuso e Canino) e chi è il mandante (Sanguetta). E quasi subito ci viene dettagliato il movente: un traffico internazionale di cocaina nascosta in succose mozzarelle. La suspence del racconto è tutta legata alla forza introspettiva dei personaggi e non alla carambola travolgente di omicidi commessi da una banda di camorristi. Non contano gli avvenimenti, ma le risonanze personali della piccola, persino banale quotidianità. A colpire è il senso di tragedia incombente, tutta meridionale, che però lo scrittore sceglie di raccontare in chiave ironica e talvolta grottesca, mescolando la sensibilità al distacco. Il riso è catartico, sovversivo e liberatorio, denuda il potere, ma può anche esorcizzare la paura e la rabbia che covano nella società antistatale tipica di certo sud degradato quanto trascurato.

Questo girotondo tragico e spesso esilarante svela legittime ascendenze gaddiane, come del resto fa la lingua, che è il tratto saliente del romanzo: un gergo che esprime le contraddizioni di un Paese solcato da una secolare diglossia tra italiano e dialetto. L’importanza di quest’ultimo è testimoniata da una delle tre epigrafi del libro: quella che rinfocola le parole di Gianfranco Contini nell’introduzione a “La cognizione del dolore” di Gadda. La lingua funambola di Del Giudice richiama senz’altro il pastiche del “Pasticciaccio”, senza tuttavia esasperarne i virtuosismi espressionistici ed evitando mimetismi di maniera.

A questo gioco di specchi retorici dobbiamo ritratti coloriti e spesso umoristici, in un continuo gioco di “doppi”: il commissario Ettore De Grada, commissario atipico e dalle velleità letterarie (“voleva fare il narratore”), malinconico e disilluso (ricorda l’Ingravallo di Gadda o il Montale di Izzo) e l’ex brigadiere, neo maresciallo Vincenzo Capace, sposato con Olimpia, ma con la passione per le donne; i due killer, Purtuso e Canino, l’uno smilzo e minaccioso, l’altro grande e grosso; e infine Ersilia e Patrizia, figure sfuggenti per le quali il commissario e il maresciallo hanno un debole. Infanzia violata, amore paterno (quello di Ciardino per la figlia in dialisi), ansia di vivere e disagio sociale puntellano un romanzo teso e iperrealista che ha il pregio di non prospettare alcuna ricetta morale.

 

di Chiara Gulino

Leconte ׀ Repertorio - la provincia sangue e orecchie di Attilio Del Giudice

pubblicata da Leconte editore il giorno mercoledì 18

maggio 2011 alle ore 13.42

 

 

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