Bloody Muzzare' 2004 ed.LECONTE coll. I TROVATORI
Postfazione di Antonio Pascale
Tuttavia
ho buone speranze, giuro, di potere un giorno raccontare una storia, ancora
una, con degli uomini, della specie di uomini, come al tempo in cui non
sospettavo nulla , o quasi. (Samuel Beckett, Testi per nulla)
Ciò non è
dunque senza rapporto col fatto elementare che l'italiana è sostanzialmente
l'unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia
visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio. (Gianfranco Contini,
introduzione a La Cognizione del Dolore Di Carlo Emilio Gadda)
La palla
al piede Non sempre si vede Ma c'è. (Alberto Arbasino, Rap!)
Al bar Centore qualcuno ha sparato e ucciso. La vittima è Nicola
Vastano, allevatore di bufale, freddato insieme a una tazzina di caffé fumante.
Don Larco, invece, muore ammazzato nella parrocchia di San Giovanni Battista,
mentre sta officiando la messa.
Attilio Del Giudice torna a raccontare le indagini del commissario De
Grada e del Brigadiere Capece in un poliziesco che - attraverso il peculiare
pastiche linguistico a cui ci ha abituato - non punta tutto sul plot, ma anche
su efficacissimi coprotagonisti..
L'ASSO NELLA MANICA ( in risvolto di copertina)
I have a dream...Ahimé è solo un piccolo sogno domestico ma, caro
lettore, te lo voglio comunicare, perchè ti riguarda: vorrei che Bloody
Muzzare' ti piacesse, che, in certi momenti, ti facesse sorridere e ti desse
allegria e, in altri, ti emozionasse, ti indignasse come cittadino e ti
suggerisse qualche riflessione. Tutto qua, ma non è poco per me.
Voglio dirti, poi, un'altra cosa: se le persone e i fatti descritti in
questo romanzo, fossero molto simili a persone e fatti della vita reale, tieni
presente che sarebbe una pura casualità, infatti sono tutti, fatti e persone,
frutto di immaginazione. Invece le condizioni del vivere civile, la dimensione
morale, il fondale sociale insomma, non sono casuali. Assolutamente no!
Naturalmente non li ho presi dalla realtà e trasferiti pari pari nella finzione
narrativa (d'altronde un trasferimento meccanico non sarebbe mai possibile,
perché c'è sempre di mezzo il filtro dell'autore con la sua angolazione visiva,
le sue cadenze, la lingua, l'elaborazione nei comportamenti dei personaggi, lo
stile, ecc.) ma, ti assicuro che, da parte mia, c'è stato un costante sforzo di
"inveramento".
Non me la sento di dire, apoditticamente, che tale sforzo, tale volontà
e cognizione debbano necessariamente corrispondere alla deontologia dello
scrittore in generale, ma, credo, che non siano estranei a un sentimento del
dovere, al sentirsi in pace con se stessi, con la propria coscienza di facitori
di storie. Ti ringrazio. a.d. g.
L'INCIPIT
L'inverno, quell'anno, tutto sommato era stato mite ma con l'entrata
ufficiale della primavera aveva voluto fare il suo canto del cigno. Marzo, si
sa,è pazzoide, però cinque giorni consecutivi di pioggia gelata e un vento di
tramontana che scendeva dai monti come un castigo, a bruciare i fiori di pesco
e di mandorlo che già da tempo erano comparsi nelle vallate, e a infilarsi in
tutte le fessure delle case con paurosi ululati, non lasciavano pensare a un
capriccio passeggero. "Accattammece o' capitone, che mo vene Natale!"
diceva la gente. Invece, domenica, San Teodoro vescovo, venne la bella
giornata.
POSTFAZIONE
di
ANTONIO PASCALE
Io credo che quello che avete appena letto non sia un giallo, almeno non
un giallo propriamente detto. Del Giudice, allo svolgimento del tema classico:
misterioso omicidio – indagine – soluzione, preferisce (una fondamentale e poco
usata) variazione sul tema, ovvero, sappiamo già chi ha ucciso (in sostanza
dall’inizio), anche perché in fondo (come lettori), bene o male, prima o poi,
lo sappiamo sempre chi è l’assassino. Meglio, allora, analizzare e argomentare
con perizia narrativa (e del Giudice la possiede), le conseguenze di un
omicidio: quando uccidi qualcuno, nell’attimo in cui gli spari, annulli, non
solo tutto quello che la vittima è stata finora, ma tutto quello che sarebbe
potuto essere. Questo, ne sono sicuro, lo pensa anche Del Giudice.
Infatti, il suo sguardo cade con più acutezza sul mondo della
vittima e non solo sull’accerchiamento dell’assassino. Del Giudice sembra
suggerire, qua e là, nei numerosi sottotesti: che importa come si arriva alla
soluzione finale, tanto lo svelamento del complotto omicida non elimina il male
che l’ha generato.
Bloody Muzzare’ mi piace perché non evita questa riflessione.
Un‘avvertenza, qui devo mettere subito le mani avanti, purtroppo, nei
miei giudizi narrativi ho in serbo caterve d’idiosincrasie e varie forme di
ostilità. E purtroppo, nonostante questi umori, o forse, ahimè, proprio in
funzione di questi, non riesco a rinunciare alle mie opinioni. Bene, posso
dunque dirlo: a me il genere giallo non piace, nemmeno il noir. Riconosco che
per un certo periodo, ha arricchito il panorama letterario italiano. Scrittori
come Carlotto, per esempio, ci hanno regalato un credibile ritratto di certi
mutamenti (economici e criminali) avvenuti nel nord est. Pur tuttavia la moda
dei gialli, la frequenza, anzi la cadenza, con cui si pubblicano libri noir mi
lascia perplesso. C’è qualcosa di non necessario in questi libri, un surplus di
male, buttato lì, sulla pagina, voglio dire un surplus di male senza
un’adeguata riflessione sulla sua genesi: quanti terribili omicidi, quanto
sangue, quante scene del crimine descritte e, soprattutto, quanti commissari
arguti, che sguardo profondo, che tecnica di indagine sopraffina…., niente, non
mi convincono poi tanto.
C’è ancora una cosa che mi rende ostica la lettura di un libro giallo,
la più brutta: lo stile con il quale si parla del male, ecco, quello proprio,
sempre più spesso, mi è ostile.
Ho visto una mattina in televisione un’apprezzata giallista che parlava
di alcuni famosi omicidi: niente di strano, mi sono detto. L’ho seguita per
tutto il tempo della sua spiegazione, ebbene c’era qualcosa che non mi convinceva.
Di tanto in tanto dopo una descrizione di una scena del crimine,
particolarmente efferata, lei sorrideva. Sorrideva con complicità alla
giornalista che la stava intervistando.
Ora, a me lo dicono spesso: non fare il moralista. Forse hanno ragione
o forse no, esagero, sono ossessivo, mi fisso, e dunque risulto parziale e
limitato, però, che ci posso fare, quella sensazione di fastidio dopo
l’intervento della giallista, mi è rimasta ancora oggi. Insomma, che c’è da
ridere? Siccome sono fissato, ho anche provato a rintracciare la giallista,
senza successo, però. Le volevo solo chiedere: ma con quella risata, volevi,
forse, liberarti dall’inquietudine che il male, inevitabilmente, porta con se e
allora, per nervosismo, ti sei messa a ridere, oppure, al contrario, a forza di
parlarne, con rituale frequenza e appropriata cadenza, il male, appunto, non ti
faceva più male? Nell’uno e nell’altro caso, mi sembrava che le mancasse lo
stile per raccontare il male. Diveniva, il male, nella sua esposizione, solo
tecnica di racconto, omicidio, indagine, soluzione, e così facendo (il male) si
semplificava, un che di volgare faceva capolino durante quella intervista.
Perché, non basta parlare del male per liberarcene, bisogna capire come se ne
parla.
Attilio del Giudice ne parla in un modo che, invece, mi convince.
Insomma, non mi dispiace. I suoi sono gialli sperimentali, dove alla parola
sperimentazione, fortunatamente, non si accompagna l’aggettivo: interessante,
ma un altro, emozionante. Insomma, strumenti narrativi per arrivare a
descrivere non gli estremi, il male (l’omicidio) e il bene (la risoluzione) ma
strumenti per parlare della vita che liberamente, prepotentemente fluisce
attorno a questi due estremi e talvolta, accidentalmente li definisce: forse il
racconto del male ha più senso (il racconto, cioè, amplia il nostro mondo
interiore) solo se la vita fluisce prima e dopo l’omicidio. Insomma, chi è il
commissario, che vita fa, come si integra o si confonde nel mondo attorno a
lui?. Chi sono i criminali, e anche loro, che rapporti hanno con il mondo
attorno? Ovvio, per rispondere a queste domande, c’è bisogno di uno sguardo
diverso. In sintesi, lo scrittore deve un po’ stare in mezzo alle cose che
racconta. Non può essere solo un demiurgo lontano che cerca di afferrare il
male, magari facendo la voce grossa per meglio stigmatizzarlo. In questo caso,
la scrittura si rivela solo affannosa, falsa, appunto: viene un po’ da ridere.
Oppure, elaborando un tono freddo, cristallino, puro e sentenzioso. Anche
questo tono, che i critici chiamano: tagliente, a me non piace. Da questo mi
sento distante. Quel tono, e quello che sottintende, certo, mi impressiona per
la freddezza, la rarefazione, ma, allo stesso tempo, m’allontana dal punto
focale del racconto. Penso, meno male, non sono così, posso stare tranquillo.
Posso stare tranquillo: quando un lettore pensa questo è perché lo
scrittore non si sente parte in causa. Per me è un errore, lo scrittore c’entra
con il mondo, a questo ne è vischiosamente legato, ne è padre e figlio, nello
stesso tempo, del male, vittima e carnefice. Dunque, a noi scrittori, ci corre
l’obbligo non tanto di mostrare il male (magari assoluto, come un barbaro
omicidio) fuori di noi, quello, in fondo ci consola, né tanto meno il bene,
sotto le sembianze di commissari o simili (pure quelli, siccome hanno funzione
eroica, in fondo ci consolano), ma (dobbiamo mostrare) le nostre contraddizioni
(di noi scrittori), anche se tormentate e conflittuali.
Lo scrittore che a me piace, sia esso, accidentalmente un giallista, o
magari scriva di fantascienza o di chissà cos’altro, è, in fondo, una persona
che attraverso un elemento di finzione (la narrazione) cerca di dichiarare la
verità, cerca di mettere in scena la sua coscienza. Ora, uno scrittore che si rispetti,
sa sempre cos’è la verità. Naturalmente, per lui la verità non è prassi
quotidiana, ovvio, la verità per uno scrittore è il tentativo di elaborare una
coscienza di sé, coscienza che prende forma e corpo ogni volta che si instaura
un processo di relazione tra il suo mondo interiore e il mondo esterno, tra le
sue motivazioni più profonde, più segrete, e le conseguenze di queste
motivazioni sul mondo esterno, e quali sono i limiti che segnano questi mondi,
quali i confini. Per far questo c’è bisogno di fantasia. La verità come diceva
Freud, ci libera, ci consola, sì, ma dopo un doloroso processo di analisi, un
processo durante il quale la nostra mente coscia (razionale) si riavvicina a
quella inconscia (irrazionale), a prezzo, però, di tormenti e difficoltà,
perché tormentosa e difficile è l’arte dell’immaginazione. La conoscenza
richiede, appunto, immaginazione. Così, a percorso finito ci avvolge una strana
armonia, non ci siamo liberati dal male, abbiamo solo portato il nostro dolore
in una dimensione di infelicità comune, contro la quale siamo meglio
attrezzati.
Nel
Neottolemo, invece, non lo inganna, capisce che per vincere
bisogna portare l’arco e l’arciere, la potenza e la ferita, il bene e il male.
Ulisse con la su mente pratica (e cinica) capisce solo quello che gli fa comodo
capire, non ha immaginazione. Wilson, uno dei maggiori critici americani,
scrisse che Ulisse, in questa tragedia, ricorda il politico moderno, quello che
mente per ottenere la vittoria. Ma quella vittoria è parziale, per vincere
bisogna portare l’arco e la ferita, queste due cose sono moralmente legate.
(Lo psicologo) Del Giudice mi piace come scrittore perché sulla pagina
porta entrambe le cose, l’arco e la ferita, e ci riesce perché, (lo psicologo,
l’uomo e lo scrittore) Del Giudice è parte in causa di quello che racconta.
Ora, noi due veniamo da Caserta. Sappiamo bene che significa abitare al
sud. E non voglio solo parlare delle presunte difficoltà civili, quelle
lasciamole stare. Detto meglio: sappiamo cosa significa abitare al sud perché
sappiamo quando è difficile scrivere del sud. Negli anni molti di noi scrittori
(del sud), siamo stati vittime (e carnefici) di uno strano stile narrativo (e
purtroppo di vita), ironico perché tentiamo di negare continuamente la ferita
che ci fa soffrire, oppure grottesco (bizzarro, estremo, estetizzante) perché
ci fidiamo solo della forza dell’arco. Del Giudice, che ha immaginazione, ci ha
pensato (e a lungo) a come scrivere del sud.
Ha portato insieme le due anime del sud, quella leggermente ridanciana,
del qui e ora, l’anima di quello che non si mette mai di spalle alla vita,
vitale, insomma il maresciallo Capace e quella critica, profonda, riflessiva, amara
perché tormentata e tormentata perché cosciente della propria finitudine,
appunto il commissario De Grada. Li fa indagare insieme (coraggiosa novità nel
panorama giallistico italiano) perché solo portando entrambe le anime si può
sperare di arrivare a uno straccio, un abbozzo di soluzione. Straccio e
abbozzo, appunto, nulla è definitivo, tutto è conflittuale.
E quale stile può esprimere al meglio questa stato di conflitto? Del
Giudice non cerca troppo lontano, parla con la voce (la cadenza, il dialetto,
l’inflessione) della provincia.
Bloody Muzzare’ è il terzo episodio della trilogia (il più bello e
profondo), aperta con Morte di un carabiniere e proseguita con Città Amara
(entrambi ed. Minimum Fax). Quando uscì il primo libro qualche critico parlò di
stile barocco. Ora, saranno le mie idiosincrasie, ma Del Giudice, con il
barocco, fortunatamente, non ha nulla a che fare.
Nella sua scrittura, non c’è allegoria, ne strani segni da decifrare
per penetrare il labirinto barocco. Quello di Del Giudice è il tono della
provincia (della sua Caserta, una città che ha amato e che lo ha tormentato e
che lui stesso ha tormentato perché l’ha amata), un tono così intonato:
sbilenco, botta e risposta, oppure solo botta, la risposta arriverà dopo,
digressivo perché imperfetto, che prende e ingabbia quello che passa, lo
sospende, lo immagazzina, lo lascia andare, marchiato a vita e poi lo riprende
ancora, e in tutto questo andare, (questo stile aperto), accoglie la vita che
passa e continuamente la rinnesta.
Così scrive del Giudice, apre e chiude, fa vento e si respira,
chiude tutto e si soffoca. Sono testimoni di quanto suddetto, tutti gli
splendidi episodi minori, profondi brani di uno stile di vita di provincia,
che, nel libro sviano sia il lettore dalle indagine (e meno male) sia i due
indagatori dal caso (e meno male), ma che poi accidentalmente (questi episodi
minori) fanno meglio riprender il filo del discorso (sono, infatti, belli come
la vita), anzi sia il lettore sia il duo investigativo, Capace – De Grada, si ritrovano
più ricchi, e insieme, anche, più disillusi.
La disillusione (sentimento che ha De Grada come referente), questa
strana e bistrattata emozione, è in realtà un’autentica e profonda forma di
conoscenza (gli antichi contadini lo sapevano), perché perlomeno ci permette di
misurare la distanza che passa tra i nostri sogni, le chimere, e la realtà.
Dunque, quando
uccidi togli alla vittima quello che è stato finora e quello che sarebbe potuto
essere. Del Giudice lo sa, per questo accanto ai personaggi classici del
giallo: gli assassini, gli assassinati e gli indagatori, Del Giudice mette loro
vicino, come sostegno e rinforzo, la realtà, non una realtà cristallizzata come
un’ideologia, ma la realtà che si svolge, penetra e si dipana nella sua stessa
vita. Eccola qui, è composta di due anime, una ferita, l’altra magica, sono
imperfette perché per niente astratte, piene di bozzi e frammenti sparsi
(perché, poi, i pezzi bisogna avere il coraggio di ricomporli). Questa vita è
un elemento catalizzante, non rimuove la ferita, e sostanzialmente, genera
un’empatia non prevista che ci fa imparentare con tutto quello che esiste, così
che, nella lettura del romanzo, ci farebbe sentire la mancanza anche di un solo
elemento, utile o inutile che sia.
La Critica
Una
trilogia noir per Del Giudice
In molti
sostengono che un noir sia solo un giallo un po’ più cruento, dai toni forti,
accesi. Semplicemente: con i suoi attori, le sue coordinate. Giusta
osservazione: entrati nello schema, lo schema ci ripagherà. Ma è visione
parziale, e mai vera fino in fondo. Sotto la scorza del genere, spesso si
nasconde ben altro. Del resto, persino autori come Leonardo Sciascia hanno
preso a prestito e a pretesto la cornice del giallo per raccontare cosa si
nasconda nelle pieghe dell’animo umano, quali traiettorie ci spingano nei
territori impervi tra verità e menzogna dove si offusca il senso profondo
della giustizia. Dunque: il noir è un noir, ma non sempre - anzi, quasi mai -
è soltanto un noir. Ce lo conferma Attilio Del Giudice, casertano, psicologo
e artista d’avanguardia da non molto tempo felicemente prestato alla
narrativa. La parte terza del suo lavoro - Bloody muzzarè, edito da Leconte
(pagg. 151, euro 15), fa seguito a Morte di un carabiniere e a Città amara
pubblicati nel 1098 e nel 2000 con Minimum fax - è un insolito viaggio in un
Sud che sovrappone arcaismi consolidati e tracce di confusa modernità. Come -
dal suo fronte - Massimo Carlotto ci ha servito contraddizioni, fragilità e
incongruenze di un’area del paese, il Nordest, travolta da improvviso
benessere. Forse non è un caso che Del Giudice sarà quasi certamente tradotto
in Francia alla stregua di Camilleri, Ferrandino, Serio, Montesano,
Evangelisti. Serge Quadruppani, scrittore e mitico editor di gran fiuto, ha
già chiesto i diritti della trilogia per proporla sul mercato transalpino. Un
interesse che non sorprende: Del Giudice, nei suoi romanzi, riassume i
caratteri della tragedia mediterranea e rimescola quel vago sentore di
malinconia che fissa i personaggi, come a legarli al destino stesso della
loro casa madre (si pensi a Montale, il detective italo-marsigliese di
Jean-Claude Izzo, o alle figure del catalano Martin come dell’algerino
Khadra). In Bloody muzzarè il commissario De Grada e il neo brigadiere Capece
indagano su due fatti di sangue solo in apparenza slegati: l’omicidio in
chiesa di un parroco, don Larco, e quello del titolare di un caseificio,
Nicola Vastano, colpito mentre beve un caffé al bar. I killer sono personaggi
programmaticamente svelati (tanto che i loro ritratti aprono il romanzo).
Esistenze rivolte al male, dopo essere state piegate in gioventù dal male
stesso che cova in una terra che non dà scampo. Del Giudice non si ferma allo
svolgersi fitto degli eventi. Non si fa travolgere dalla carambola degli
omicidi commessi da una spietata banda di piccoli e mediocri camorristi. In
sostanza, allo scrittore interessa solo marginalmente dividere il bianco dal
nero. Perché è attratto dalla zona grigia. Da tutto quello che ovatta il
mondo di carnefici e vittime. Di vivi e morti. Universi che si toccano,
talvolta arrivano pure a confondersi. È qui che Del Giudice - con una ormai
riconosciuta capacità linguistica, quel solco gaddiano entro il quale
amalgama con sapienza e ironia il dialetto napoletano a un italiano comunque
spurio - sembra volersi fermare. Per indagare con il suo sguardo acuto,
rivelatore, persino lieve. L’autore ascolta, orecchia, seziona quella
violenza che si impasta a cinismo e disillusione. E riporta a galla, persino
attraverso digressioni che poi sono il sale della storia, quel disagio di
vivere che generalmente si manifesta quando l’osso del meridione è colpito
dall’afa, nella morsa della controra. Del Giudice, in Bloody muzzarè meglio
che altrove, si confronta con il «doppio». Canino e Purtuso sono i killer che
ammazzano per il gusto di ammazzare; De Grada e Capece gli investigatori alle
prese con i rattoppi della loro vita piuttosto che con i limiti del mestiere;
Ersilia e Patrizia le diversissime donne che attraggono i detective senza afferrarli
mai; il parroco e l’imprenditore - amici d’infanzia - eliminati solo perché
inciampati in un preciso disegno malavitoso, un traffico internazionale di
cocaina a base di succose mozzarelle. Due, in fondo, sono proprio le anime di
questo angolo di Sud - la zona di confine che si allunga da Napoli a Caserta
- aggredito dai fantasmi di un passato che non vuole morire. E Del Giudice ce
le restituisce con una forza che proprio l’imperfezione della materia
trattata rende più cupa, intensa. IL
MATTINO FRANCESCO DE CORE
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