CITTA’ AMARA ed. Minimum Fax Maggio 2000 Collana: Nichel 2
Finalista
al "Premio Giorgio Scerbanenco Noir in festival Courmayeur 2000". Città Amara ha
avuto il maggior numero di preferenze nella votazione dei lettori.
La insospettata ferocia delle cose… le si
rivelava d’un subito… brevi anni!
(
Dal Pasticciaccio di Gadda ).
Che ci fanno
queste anime davanti alla chiesa.Questa gente divisa.Questa storia sospesa.
(
Da Disamistade di De André e Fossati ).
L'INCIPIT
Chissà perché gli piaceva la parola "ossimoro". Gli era
capitata sulla punta della lingua, una volta, leggendo il giornale, e fu amore
a prima vista.
Dapprincipio, pensò che designasse un osso di colore scuro, un osso
speciale, magari da far gola, come l’ossobuco; ma quando andò a consultare il
G. Devoto e G.C. Oli (centoventimila, in dieci rate mensili), due volumacci, che troneggiavano nella cristalliera, tra sei
tazzine di porcellana cinese e otto bicchierini per il rosolio (quanti ne erano
rimasti del servizio da dodici), e lesse: "S. m. Figura retorica
consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono
concetti contrari", il brigadiere Vincenzo Capece
capì e non capì, ma, senza esitazione, l’assunse quale parola chiave e
interpretativa di uomini e cose e, talvolta, dell’intero sistema
planetario."E’ tutto un ossimoro, è tutto un ossimoro!" soleva dire.
Tra sé e sé, però. Perché, all’esterno, era meglio andarci cauti. Non
che non gli piacesse far bella figura, lui che veniva dalla gavetta e aveva
fatto le scuole serali, ma, un giorno, che il questore, democraticamente (i
carabinieri avevano collaborato), lo aveva invitato a esprimere un parere su un
imbroglietto ben congegnato, da parte di due
bellimbusti di assessori, in combutta con un amministrativo di ottavo livello,
tutti e tre preposti alla salvaguardia del pubblico bene, e lui l’aveva
sfoderato, sicuro di far colpo, s’era dovuto sorbire l’incazzatura del
questore. "Ma che ossimoro e ossimoro! Capè, qua
si tratta di peculato bello e buono, con aggravanti. 314 e 360 Codice
Penale."
Fu uno scossone, come se l’avessero schiodato da una sua poltroncina
sulla torre eburnea della filosofia e ricondotto agli inderogabili doveri di
brigadiere dell’Arma.
Con l’avvocato Morra, quando in Centrale si commentò la relazione di
Lellino Cacciapuoti con la vedova Solimene,
fu, invece, tutt’altra musica. L’avvocato Egidio Morra, con una carriera
costellata da memorabili arringhe, aveva detto: "Quanto si perpetra ai
danni della vedova Solimene è una feroce, dolce,
violenza". Per don Vincenzino era una buona occasione e si buttò: "Un
ossimoro"- disse.
L’avvocato lo guardò un po’ sorpreso. "Si, avete ragione, proprio
così! Un ossimoro. Mi compiaccio."
A Capece brillarono gli occhi, come a uno che
avesse superato un difficile esame, dopo una precedente bocciatura.
La Critica
"…
ma l’autore dà il meglio di sé nelle pause, nelle digressioni e in fondo
l’enigma dell’omicidio del professor Mezzacapo che
non verrà sciolto interamente, risulta abbastanza pretestuoso. Dietro uno stile
letterario educato, affabile, a Del Giudice preme soprattutto trasmetterci un
lieve disagio, il senso di un dubbio o anche una nostalgia di felicità
possibile, sapendo che si tratta di scelta precaria, incerta, sempre
rischiosa."
La
Repubblica (Musica) – Filippo La Porta
"…
quanto allo snobismo, esso si salda assai bene alla vena ironica e
comico-grottesca che pervade tutto il romanzo, spesso giocata su situazioni
paradossali. Ma il pregio maggiore del libro, è bene ripeterlo, risiede
senz’altro nella lingua, capace di svariare dall’alto al basso, dalla prosa
d’arte (ironicamente intrisa di aulicismo) ai
dialettismi e ai gergalismi. La gaddiana lingua di
Del Giudice è connotata da processi di accumulo, di moltiplicazione, mentre la
rappresentazione vive di una straordinaria alternanza di comicità e tragedia,
di coralità e scandaglio psicologico."
L’Unità
- Andrea Carraro
"…Il pretesto per accedere ad una galleria di personaggi
straordinari, che entrano ed escono dalla vicenda senza mai perdere un colpo.
Con ironia estrema e quella leggerezza che è propria dei grandi narratori, Del
Giudice compone, attraverso le voci dei personaggi, un microcosmo che ha in sé
un equilibrio tale da poter stravolgere i canoni del giallo e fare a meno del
finale. Scelta dichiaratamente gaddiana e
indubbiamente efficace, che rafforza il valore narrativo e la credibilità della
vicenda."
Pickwick – Tiziana Lo Porto
"…Carlo Emilio Gadda la chiamava ‘l’insospettata ferocia
delle cose’. E non è un caso che questa frase venga posta in epigrafe da
Attilio Del Giudice nel suo ‘Città amara’. Non è un caso, perché questo nuovo
insolito giallo dell’artista e scrittore casertano tende a svelare
l’alterazione del male, la sua capacità di celarsi dietro i paraventi
perbenistici di una città di provincia, e di deflagrare all’improvviso,
perfino, nella quiete di una famiglia borghese…
Dietro la
cornice del giallo – che è per Del Giudice un pretesto, sia pure seducente, e
comunque non risolutivo, perché il romanzo non dà risposte, ma spiazza il
lettore – c’è l’urgenza di ‘fissare’ quella che è una traumatica mutazione
antropologica e sociale."
Corriere
del Mezzogiorno – Francesco De Core
"…Storie di carabinieri, che si riappropriano del proprio
stato naturale di persone comuni. Di qui il dialetto come parola radicata nella
vita concreta, dove un ‘caso’ di triplice omicidio fonde in un’unica storia
circolare il passato e il presente di ogni personaggio, esposto al suo
inscindibile legame con l’esterno."
Avvenimenti
– Emanuela Muzzi
"…Ecco un altro bel romanzo (breve) in cui il dialetto e le
atmosfere del nostro Sud fanno da leitmotiv all’intreccio. Il brigadiere
Vincenzo Capece, il commissario Ettore De Grada, il professore Aristide Mezzacapo,
la vedova Solimene Maria Luisa, detta Lulù, Lellino Cacciapuoti: intorno a questi personaggi, così lontani
dagli stereotipi ai quali ci ha abituati la narrativa poliziesca americana, si
svolge un fattaccio di cronaca nera, che si legge con vero interesse e diletto."
Playboy
"…Indagini intricate, come in ogni buon ‘giallo’, che
consentono a Del Giudice di rovistare impietosamente nelle pieghe di quel tipo
di perbenismo di facciata, che avvolge e nasconde certi aspetti e certi
ambienti di una città di provincia. Un Del Giudice molto ‘cattivo’, ma ottimo
narratore."
Il
Salvagente – Nino Ferrero
"…Come già in ‘Morte di un carabiniere’, suo primo romanzo,
le ambientazioni, i personaggi e le vicende narrate in ‘Città amara’
richiamano, infatti, fortemente, luoghi, figure e avvenimenti per molti versi
‘familiari’ a chi vive e conosce la realtà casertana. E anche se, come sempre
in letteratura, ‘ogni riferimento a fatti e circostanze realmente accaduti è
puramente casuale’ è più che lecito supporre che ‘amara’ sia proprio la
sua/nostra città, o comunque le tante altre del Sud, accomunate da situazioni e
problemi sciaguratamente simili."
Casertamusica - Silvia Tessitore
"…E’ un piacere ritrovare la provincia meridionale del
brigadiere Capece Vincenzo, con annessi e connessi,
maresciallo, appuntati e carabinieri, pianerottoli come piazze, morti che si
fanno numeri al lotto, caffè e sfogliatelle che scandiscono il passare del
tempo."
Il
Mattino – Giovanni Fiorentino
"…
‘Città amara’ rinnova le gesta del brigadiere Capece,
conciliante e furbo, come può esserlo uno del popolo, e dell’aristocratico
commissario De Grada. Lo sfondo è quello neghittoso
della provincia casertana, il ritmo è dinoccolato, agile e dialogato, come se
fosse una sceneggiatura; l’atmosfera è quella familiare e ingannatrice dei
vicoli, facce pasciute e segreti inconfessabili."
Pulp
- Claudia Bonadonna
"…
Lo stile di Attilio Del Giudice, che alcuni hanno avvicinato a Gadda, propone
la storia in una chiave grottesca e drammatica, continuando ad esplorare il
Sud, così pieno di intrighi e misteri.
Republik. Org.Liber Libri Libro -
Valeria Chiari
…noteworthy here is not simply the interest generated
by Camilleri's book, but Italy's new interest in the
detective story itself, long considered as mere entertainment. A prime example
of this is the critical recognition garnered by Attilio
Del Giudice's Città Amara, a detective story recently published by
East of
Tutto
partenopeo, di scrittura immaginifica, alla Gadda,un giallo lieve lieve, dove a contare è più l’ambiente e la gente, che non
l’intreccio.…Gradevolissimo romanzo di un
aristocratico casertano, psicologo e filmaker, che
potrebbe diventare un nuovo Camilleri.
GIOIA
(Il meglio del giallo d’autore dal "Noir in Festival")
Attilio del Giudice ritorna a
giocare con una narrazione al di fuori degli schemi, che spazia tra noir,
giallo, poliziesco e sociale. Lo stile è sempre incisivo, la struttura è agile,
cadenzata da capitoli veloci e ben scritti. Il lettore viene portato ad una
lettura scorrevole, coinvolgente.
CARMILLA - Roberto Sturm
Una Recenzione di
ANDREA CARRARO
da
INGEGNI
Andrea Carraro
BOTTE AGLI AMICI
Alberto Gaffi editore in Roma
© 2005 Gaffi
Via della Guglia, 69/b
00186 - Roma
www.gaffi.it
Attilio Del Giudice
CITTÀ AMARA
minimum fax, 2000, pp. 108 (**)
È un romanzo interessante anche se non del tutto risolto e
un po’
libresco, La città
amara di Attilio Del Giudice, che inaugura la
collana
di narratori italiani Nichel
della piccola ma assai attiva casa
editrice
romana minimumfax. Interessante è
l’impasto linguistico, di ascendenza
gaddiana: un misto di dialettismi, arcaismi, voci dotte e
burocratiche
e popolari, espressioni gergali. Ancora di ascendenza gaddiana
è la mescolanza di ironia, comicità e tragedia (non a caso
l’autore
del Pasticciaccio viene citato in epigrafe al romanzo). L’innegabile
attitudine
drammaturgica dell’autore si esprime in dialoghi dotati di
un
sound riconoscibile.
Meno felice è la soluzione (o meglio l’intenzionale
assenza di soluzione) dell’intreccio giallo: la scelta
dell’autore di
lasciare “aperta” la storia, di non rivelare al lettore il
colpevole dell’efferato,
triplice omicidio sul quale si trovano a indagare
contestualmente
polizia e carabinieri di una imprecisata cittadina campana,
sembra
francamente un po’ “di comodo”, non giustificata dalla
struttura narrativa
e dalle scelte poetico-espressive
del racconto. Se è vero, com’è
vero, che l’autore ha cercato di fondere in questo romanzo
qualità artigianali
e attitudini più alte, da opera mainstream,
l’impressione è che
le prime siano state pesantemente mortificate dal finale.
La città amara del titolo non viene mai nominata, ma il
dialetto che
parlano i personaggi e che screzia talora il discorso
indiretto libero, e
poi le coordinate geografiche che spuntano qua e là nella
narrazione,
lasciano supporre che si tratti di un centro situato nella
vasta provincia
casertana, e a questo proposito non mancano sapide
notazioni sulla
napoletanità: “Aveva, poi, l’inclinazione (...) a manifestare, nei
confronti
del Potere: sacro e profano, politico, finanziario,
militare, un
duplice approccio. Il primo, decisamente pragmatico, a base
di inchini,
ossequi, ‘a disposizione’ e ‘servo vostro’; l’altro più
intimo ed esorcizzante
(con una peculiare necessità, se vogliamo, per chi abbia
sentito
la presa nei fondelli, per secoli e secoli), basato sulla
dissacrazione, il
riduttivismo e lo sberleffo”. Del Giudice rivela anche sensibilità
sociologica,
sotto il segno dello snobismo: “... sarebbe stato difficile
distinguere,
tra questi ragazzi, livelli, classi ed estrazioni sociali.
Questo
perché vestivano tutti allo stesso modo, quasi sempre di
nero, e parlavano
alla stessa maniera, usando le stesse parole. Poche, una
ventina,
in tutto, tra quelle di senso comune (principali e
accessorie) e oscuri
fonemi per criptiche allitterazioni”. Tale snobismo si
salda alla vena
ironica e comico-grottesca che pervade tutto il romanzo,
spesso giocata
su situazioni paradossali. Ma il pregio maggiore, è bene
ripeterlo,
si ravvisa nella lingua, capace di svariare dall’alto al
basso, dalla prosa
d’arte (ironicamente intrisa di aulicismo)
ai dialettismi e ai gergalismi.
La gaddiana lingua di Del Giudice
è connotata da processi di accumulo,
di moltiplicazione, mentre la rappresentazione vive di una
stridente
alternanza di comicità e tragedia, di coralità e scandaglio
psicologico.
Se il linguaggio mostra una spiccata inclinazione
espressionistica,
l’impostazione drammaturgica e la caratterizzazione dei
personaggi è
invece decisamente realistica: l’autore ricerca (con
successo) la verosimiglianza.
Raramente si concede qualche affondo liricheggiante,
con
metafore piene, rotonde: “Il mare s’era scurito e
proliferava creste spumose:
un’infinita teoria di bianche aperte ferite. Di colpo, i
gabbiani
s’ammutolirono. De Grada avvertì
uno strano silenzio. Un’aria sospesa,
innaturale, trasognata, come per un’attesa di terremoto, o
di bombardamento”.
Un amico scrittore, dopo aver letto questo romanzo, mi
ha detto che certe parti gli facevano pensare a uno
sceneggiato televisivo.
Beh, magari gli sceneggiati televisivi avessero una simile
qualità
di dialoghi! E poi personaggi psicologicamente centrati,
dai destini
credibili, come questi. E infine la sorvegliata,
intelligente e colta comicità
che permea molte pagine del romanzo di Del Giudice. Se i
gialli
televisivi fossero di questo livello, ce ne sarebbe
abbastanza per rallegrarsi
e per cominciare a parlare bene della televisione.