ATTILIO DEL GIUDICE

         LA VITA INCAGLIATA        

 

postfazione di Francesco Piccolo

     Ed. LECONTE (aprile 2006) collana: I TROVATORI

I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma certo tali non furono tutti i secoli che ti prepararono

(Italo Svevo, La Coscienza di Zeno).

I' respiro ma nun abbasta ancora nun abbasta nun abbasta si nu rispiri tu vicino a me

(Almamegretta, Respiro).

 

 

Nino vive in campagna nel Casertano, fa la quinta elementare. E' lui a raccontare la sua passione per la maestra scesa da Forlì, i suoi rapporti con la madre premurosa e il padre camorrista, la sua amicizia con Michele. Ecco il suo mondo, inquinato dal sopruso e scandito da un linguaggio che mostra rispetto per la realtà orale di questa porzione del sud. Un linguaggio che in qualche modo nazionalizza il dialetto per approdare a un italiano deformato, spesso esilarante,di certo evocativo quanto il peso di uno sguardo o il colore della terra macchiata di sangue. Un autentico idioma di agilità gaddiana, capace di fare delle storie di Nino una struggente metafora della solitudine meridionale.

 

 (L’ASSO NELLA MANICA)

Caro lettore,
forse, prima di acquistare e leggere questo libro, prima di fruire di una qualche qualità espressiva, vuoi sapere quali siano state le intenzioni dell'autore. Si sa che le intenzioni sono una piccola cosa fallibile e un romanzo una volta scritto, aspira ad andare oltre e a camminare per conto suo, ma, per quel po' che possono valere, te le dico in due parole. Ho inteso parlare di un ragazzino di dieci anni e, attraverso il suo linguaggio, della sua condotta psicologica: le sue morbosità di adolescente, la levità, gli affanni; attraverso ì suoi affetti e i suoi rapporti umani, ho inteso parlare di una comunità contadina, arcaica in alcuni riti e valori, ma brutalmente ammodernata dalla cultura del sopruso e della violenza. Un concentrato di drammatiche contraddizioni, un disagio nella vita civìle che investe intere regioni del Mezzogiorno. Questo non era il mondo della mia infanzia lontana (altre, semmai, furono le lacerazioni), ma mi sono convinto che gli scrittori del Sud e anche i più umili facitori di storie non possono eluderlo, se vogliono rinforzare le esili e scabre ragioni della scrittura narrativa col peso della realtà e cercare l’incontro con i lettori su un terreno più sicuro. (attilio del giudice)




LA POSTFAZIONE DI FRANCESCO PICCOLO

La vita incagliata è per Attilio Del Giudice una sorta di resa dei conti. Ma alla fine, ogni romanzo è una resa dei conti. Se uno dicesse una frase stupida come: ho necessità di capire alcuni nodi della mia vita, si potrebbe rispondergli che questo è il suo programma letterario fino alla fine dei suoi giorni. Però uno scrittore si mette dentro una storia, sceglie un punto di vista molto basso – in questo caso, un ragazzino un po’ ignorante – e a quel punto non gli rimane che stendere un mondo intero davanti, come quelle enormi lenzuola bianche che le madri facevano volare in alto prima che cadessero dolcemente sul letto, e nell’attimo in cui volavano per la stanza coprivano ogni cosa, erano tutto il mondo che si poteva vedere, e se tutto il mondo per un secondo è morbido e bianco, ci si può mettere dentro (scrivere) quel che si vuole. E allora questo ragazzino, la sua lingua sgrammaticata che accompagna un pensiero semplice e intanto potente per il fatto di voler essere indagatore, non può essere altro che commovente. Perché dentro il candido sguardo (e di conseguenza sopra le candide lenzuola) ci sono cose molto serie: il dolore, la violenza, e la tenerezza di alcune intuizioni liriche di questo io narrante malmesso che attraverso la fatica delle parole da trovare, buone o cattive che siano, riesce a far passare tutto quel che deve passare. Solo che quel che passa è la vita che si è incagliata. Del resto, cosa c’è di commovente in quelle lenzuola che volano per la stanza prima di cadere morbide sul letto? Non c’è nulla, prese così da sole: sì, il gesto e la morbidezza; sì, l’odore di pulito; ma quel che commuove è altro: è il peso della storia di quella stanza, è la bellezza di una madre che sfiorisce, è la grandezza dell’amore che chi guarda ha per tutto questo. Solo che quell’amore così grande è inesprimibile, sia per timidezza sia per ostentazione, perché nemmeno un abbraccio e una dichiarazione possono davvero raccontare quel che costituisce il sentimento.
In questo un romanzo è coraggioso. Perché prova a mettere in moto un meccanismo che nel suo dispiegarsi complesso e tangente alla vita, prova a dare la misura dei sentimenti – e in questo caso, dell’impossibilità di esprimere una personalità, sia pure fragile e inadeguata, dentro e fuori la famiglia. Gli accadimenti dolorosi sono troppo tragici per essere presi di petto, per questo il ragazzino prova a ragionare di sbieco, a prenderli alle spalle, a girarci intorno: è sia la misura dei suoi mezzi, sia la protezione che i suoi mezzi gli hanno dato. Ma non c’è niente da fare: se la vita si incaglia, si incaglia.
Il lavoro sulla sintassi meridionale, nei libri di Attilio Del Giudice, è meticoloso, pernicioso, anche testardamente manierato. È’ il suo modo di sfondare, sfrondando, il senso del dolore e questa condanna ben accolta che è la meridionalità. Il maresciallo Capece e il commissario De Grada sono stati i primi attori di questa finta commedia che sfociava nel giallo anomalo ma soprattutto penetrava nell’esistenza della vita umana da compiersi tutta sotto il sole della controra, a combattere con il cibo della trattoria, con la bellezza sudata delle donne. E qui, nella Vita incagliata, lo scenario è lo stesso, una sorta di silenzioso protagonista che senza quasi muoversi invade tutto, i corpi dei personaggi, i pensieri morbosi, la lingua fino alla sintassi del flusso di coscienza che si frantuma in un ragionamento faticoso per capire qualcosa del mondo. Del Giudice quindi sceglie di non voltare le spalle al peso della provincia antica, ma la prende di petto e si abbandona come tra le braccia di una signora grassa che non è solo felliniana, ma anche campana.
Tutto questo, per me, ha a che fare con la mia vita di provincia e con il rapporto che con Attilio ho avuto nella mia vita di provincia, quando solitario e pieno di generico desiderio di espressione, quando insomma la mia sintassi e la mia età assomigliavano per inadeguatezza al protagonista-narratore della Vita incagliata, come si assomigliano tutti gli inadeguati ragazzini provinciali del mondo, avevo come punto di riferimento una porta che assomigliava a tutte le altre di un piccolo parco con villette a schiera. Fermavo il mio motorino lì fuori e avevo sempre difficoltà a essere sicuro che quella fosse la porta giusta, o forse quell’altra, fino a quando Attilio appariva su un’altra soglia ancora. Andavamo su un divano e così ho passato alcuni pomeriggi della mia vita, ad ascoltarlo molto e a parlare poco (e balbettando) di letteratura, arte, cinema ma anche di donne e di ricordi. E poi uscivo che era buio, e sulla porta Attilio parlava ancora, quasi impendendomi di andare via, e poi richiudeva e io saltavo sul motorino e ogni volta mi sentivo come se mi avessero cambiato la bombola del gas e potessi ricominciare ad andare avanti per qualche altro mese, nel mondo scoraggiante dove stavo, pensando che quella mia generica volontà di esprimermi non era astratta se c’era qualcuno che raccontava di averla avuta e che la rendeva concreta attraverso le cose che faceva. Uscivo da casa di Attilio e mi dicevo semplicemente: c’è qualcuno che è come te, quindi ce la puoi fare. E questo nella mia vita è stato molto importante.
Il problema era, evidentemente, che la vita non si incagliasse definitivamente. O, se si era già incagliata, come del resto mi sembrava, ci fosse la possibilità, un giorno, che si sciogliesse. Per questo mi sento vicino al protagonista di questo romanzo, che pure ha delle ragioni più grandi delle mie per sperare in qualche scioglimento. Ma è così: il lettore partecipa di un romanzo per un’adesione vaga, non precisa né proporzionata. E quando l’orrore è morbido e vicinissimo, quando tocca la famiglia, gli amici, la maestra e la strada dove si vive, quando è addolcito e nascosto dalla quotidianità, diventa immediatamente il mio orrore personale, e io non sono più io ma il protagonista de La vita incagliata. Una cosa semplice.

L'INCIPIT

"Da dieci giorni abbiamo una nuova maestra. La nuova maestra parla tischitoschi, perché viene da una città dell'Alta Italia che si chiama Forlì e tiene la faccia uguale uguale all'Arcangelo Gabriele che sta pittato nella chiesa di Santa Rita, subito entrando a destra."

I RISCONTRI CRITICI

        

        «La vita incagliata» di Del Giudice
      spietato, poetico ritratto di un mondo
Sguardi di bambino sul nulla degli adulti
     
       CORRIERE DEL MEZZOGIORNO  DOMENICA 5 NOVEMBRE 2006

di FRANCESCO DURANTE

      

Con La vita incagliata (Leconte, 152
pagine, 15 euro; affettuosa postfazione
firmata da Francesco Piccolo), il casertano
Attilio Del Giudice ha composto secondo
me il migliore dei quattro romanzi
che ha sinora pubblicato. Ho usato deliberatamente
il verbo «comporre» — e
non «scrivere» — giacché mi pare di cogliere,
in questa breve e intensa, vivace e
mossa narrazione, un assai lodevole sforzo
di concentrazione, mi verrebbe quasi
da dire di rarefazione, che a partire dal
sorvegliatissimo uso
della lingua si estende
poi alla tessitura
propriamente narrativa,
che da quell’uso
sembra quasi farsi
strada come per un
esito naturale.
A differenza dei tre
romanzi precedenti
Morte di un carabiniere
(1998), Città amara
(2000) e Bloody muzzarè (2004), che
tutti insieme formano una trilogia cui
soltanto per semplificare potremmo allegare
l’etichetta «noir» (ma forse al primo
Del Giudice meglio si attaglia quella
più tradizionale di «poliziesco»), qui lo
scrittore procede a una riduzione dei
suoi materiali, a una scomposizione del
meccanismo, a una sua minimalizzazione
che si fa rapsodica e si costituisce in
brevi cellule narrative (quasi) indipendenti.
La scelta risulta particolarmente
opportuna dal momento che quella che
Del Giudice racconta non è una «storia»
compiuta, bensì l’obliquo apprendistato
alla vita di un ragazzino, Nino, che vive
nella campagna casertana e frequenta
la quinta elementare. Il libro, anzi, si
finge direttamente scritto da Nino, con
una scelta che gli sperimentatori francesi
del vecchio Oulipo avrebbero potuto
definire una contrainte, una specie di costrizione
o di regola che obbliga chi la assume
a conformarsi a tutta una serie di
accorgimenti i quali, al di là della pura
esigenza mimetica (di credibilità del personaggio
narrante), si costituisce in primo
luogo come il punto di partenza per
un tour de force del linguaggio che ha il
non piccolo merito di porre un argine a
certe ridondanze, a certi eccessi, a certi
facili effetti di cui molta letteratura iperrealistica
di ascendenza post-cannibalesco-
tarantiniana risciacquata nelle non
cristalline acque del golfo di Napoli è infarcita
ormai al limite della più stucchevole
sazietà.
Invece, per far parlare Nino, Del Giudice
deve compiere un misericordioso percorso
a ritroso — nella memoria, nella
sua sensibilità più profonda—e costruire
qualcosa di fresco, di non usurato. Il
suo patois, un felice impasto di italiano
regionale e dialetto, mi si è imposto come
una delle lingue più «naturali» che
mi sia capitato di leggere in questi ultimi
anni, e sono felice di additarlo a esempio
di probità e misura, oltre che per la
felicità di certe soluzioni (ne dico una
soltanto: la caratteristica declinazione
del passato remoto, per cui, ad esempio,
«Michele penzai»).
Vengo ora a dire che cosa ci racconta
Nino con questa sua bellissima voce
(questa è sempre la parte più ingrata
di una recensione). Nino dunque racconta
quello che vede intorno a sé: a casa,
dove una madre tenera e affettuosa
è confinata alla solitudine delle sue speranze
frustrate da un marito che è uomo di
rispetto, becero e arrogante e violento
— uno che al figlio non manca
mai di rivolgersi chiamandolo «strunzo";
 a scuola, dove c’è una maestra che
sembra una fatina buona piovuta da un
favoloso altrove che si chiama Forlì;
per le strade, a giocare, a pedalare, a
correre, a scoprire tutto l’infinito mondo
che c’è da scoprire a quell’età, insieme ai
suoi coetanei presi da tutte le turbe
ormonali del caso.
Lo sguardo di Nino è insieme innocente
e impassibile. Sotto i suoi occhi cade
lo squallore quotidiano di una provincia
abbandonata e regolata da norme di
convivenza tribali, e il racconto che ne
viene è nient’altro che il veridico resoconto
di ciò che accade in «un paese che
se fai una cosa buona, nessuno se ne accorge;
ma appena appena sgarri lo sanno
tutti quanti».
Grava su questi luoghi, su questa specie
di Twin Peaks di Terra di Lavoro, il
sentore come di una maledizione popolata
di fantasmi, come quello di Nennella,
la sorellina che «murette che io ero
piccolo»: «Non si trovava più e, poi, dopo
un sacco di ricerche la pescarono nel
canalone, che dice che teneva la pancia
gonfiata come una zampogna». Del Giudice
è molto bravo nel dosaggio narrativo,
nel far sì che la tensione sottile che
dagli uomini si è trasferita allo stesso paesaggio
non venga mai meno, neanche
quando ciò che racconta, come succede
spesso, muove al sorriso. Così è anche
nel delicatissimo capitolo finale, il più incantato
e amaro di questa commovente
storia di una infanzia miracolosamente
in equilibrio sul nulla lasciato dai padri.

 

 

31/10/2006 IL MATTINO

 FRANCESCO DE CORE

Infanzia negata e vita incagliata per il figlio della camorra

La scelta di non voler più crescere come Oskar del «Tamburo» di Grass



Quand’è che un’esistenza all’improvviso s’incaglia come può fare una barca che resta senz’acqua attaccata alla terra? Quand’è che si resta lì, come un urlo sospeso nell’aria ferma? A Nino glielo dicono proprio. Nell’ultima scena c’è lui, il bambino, in preda al delirio, con la voce del padre ucciso a pulsargli nelle tempie di un sogno andato a male; e c’è un medico che dice alla madre: «La vita di questo ragazzo è a rischio, una vita incagliata». Il ragazzo, Nino appunto, fa la quinta elementare, muove i suoi passi brevi come una bolla di sapone in un temporale, vive in un paese dell’entroterra casertano con i piedi ben saldi in una storia arcaica, tirata su a miseria, sangue e sbuffi di finta modernità. Nino racconta - con una lingua che è tutta un salto in un dialetto che suona legnoso al pari di uno schiaffo - come quella violenza invade anche le storie anonime. L’abilità di Attilio Del Giudice, nel suo ultimo libro La vita incagliata (Leconte, pagg. 149, euro 15, con postfazione di Francesco Piccolo), sta proprio nel tracciare con la matita il cammino stringato di Nino, il suo perimetro di bambino colpito a freddo dagli eccessi degli adulti, e qui più che altrove dal cinismo del mondo che vuol fare di lui uno fra tanti, magari saziato da pane e sopraffazione, cinismo e furbizia. Ma Nino è pur sempre un bimbo, ha un piccolo orto da coltivare anche se la madre è una vittima, il padre un camorrista che prova a travestirsi da persona perbene, la maestra tischitoschi s’innamora di un altro e non di lui, gli amici - e Michele più amico degli altri - crescono storti come malapianta, e l’onorevole rappresenta scenari inquietanti ma ancora incomprensibili agli occhi di un innocente. I giorni pulsano lenti; i gesti sono incatenati a rituali definiti, e non c’è esotismo neppure nella lingua che agita la pagina di Del Giudice (psicologo educato a cinema, arte e Gadda), un impasto che prende forma in un pezzo di terra che pare aver dimestichezza solo con il degrado e l’abbandono, lunghie scie di una sola, immensa periferia ingrossata dai veleni. In questo recinto, Nino sa di dover diventare adulto, ma è frenato dalla bruttezza manifesta del (ri)creato; anzi, è come se volesse ribellarsi all’ignominia dei grandi, ovvero alla rassegnazione patita (materna) e alla violenza imposta (paterna). Ma, alla fine, il gesto estremo è quello di non voler crescere, al modo di Oskar nel Tamburo di latta di Grass. f.d.c.

 

 

  STILOS (26 Settembre 2006) - IL PRESEPE DI PLASTICA (Novembre 2006)

  di NICOLO' LA ROCCA

 

Nino vive in provincia di Caserta, frequenta la quinta elementare, ha una maestra che parla tischitoschi, un padre camorrista, una madre ansiosa, una casa con un grande terrazzo nel quale non c’è niente, soltanto un filo per il bucato; proprio come il quotidiano di questo bambino, un niente attraversato da un sottile ma duro filo di cose e di persone, di pomeriggi trascorsi osservando i giocatori di biliardo di un bar e fumando sigarette di nascosto. È una vita incagliata, quella del protagonista del nuovo romanzo di Attilio Del giudice, un’esistenza impantanata nella provincia criminale, perché il crimine, in questo dagherrotipo campano evocato dalla lingua sincera e dialettale del bambino, non è altro che una delle tante variabili della sua vita; sta dalla parte del padre, figura di camorrista con le mani in pasta ovunque, sta nelle strade periferiche del paese, affollate di prostitute e “ripulite” quando deve arrivare in città un pezzo grosso della politica, sta nelle facce cicciute dell’onorevole che va a trovare il padre per degli accordi misteriosi. Questo mondo feroce fatto di abusi, brutalità, sottomissioni e angherie viene normalizzato dallo sguardo ingenuo del bambino: così, grazie all’efficace artificio della regressione utilizzato da Del Giudice, passano in rassegna davanti agli occhi del lettore tutte le disumanità immaginabili nel microcosmo della provincia campana, e questo narratore singolare ci fa capire che la normalizzazione non è soltanto nella sua voce, nel suo punto di vista, ma ovunque. Sintomatica, a tal proposito, è l’entrata in scena di un politico: nel romanzo è una figura sfocata e laterale. L’onorevole farà capolino per scomparire subito. Sarà il padre di Nino, camorrista un po’ guascone a pagare, a restare in primo piano. È un’opera insolita e preziosa, La vita incagliata, è come un libro mastro del mondo provinciale campano, non ingabbia il fluire della realtà nelle convenzioni incipit-sviluppo-finale. Gli ambienti, le microstorie, i personaggi che ogni capitolo ci offre sono di pura invenzione, ma restii a farsi domare dai ricettari più recenti della fiction e della faction. Il protagonista del romanzo, pagina dopo pagina, accumulando le sue giornate con un taglio diaristico, ci offre il suo mondo lasciando che sedimenti sulle pagine del libro. La vita incagliata di Nino si deposita davanti al lettore e la sua voce disarmante, curiosa ma docile, buffa ma triste, ne rivela tutto il carico di dolore.

 

  IL ROMA (CULTURA - 13 Gennaio 2007)

LA VITA INCAGLIATA E’ IL NUOVO ROMANZO DI ATTILIO DEL GIUDICE

 LE VICENDE AMARE DEL PICCOLO NINO

               di   ROSARIA MORRA

 

Nino conosciuto in provincia di Caserta come “”o figlio

‘e Sigaretta”, è il piccolo protagonista

di un disordine sociale. La sua famiglia

è infatti composta da Alfò, l'irascibile padre

camorrista, e da Angelina, la buona mamma

che sopporta gli atteggiamenti del marito e

la condizione di moglie di un criminale. Ma

c’è anche Nennella, la sorella maggiore di

Nino, tragicamente affogata nel fiume, il cui

ricordo è sempre vivo nel cuore della madre.

Questi i protagonisti di “La vita incagliata”,

quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice

(nella foto), scrittore casertano, pubblicata

dalla capitolina Laconte. Il libro, presentato

al Forum Fnac, nel cuore del Vomero,

ha i «colori agrodolci del Meridione», come

spiega Carmine Aymone, giornalista intervenuto

per l’occasione. «Il registro adottato

- dichiara Del Giudice - non è quello lirico

di Di Giacomo, né quello espressivo di

Viviani, non è neanche quello piccolo borghese

di Scarpetta e neppure quello canagliesco

tipico dei vicoli: è il dialetto povero

della provincia». Il carattere drammaturgico

rappresentato dai 52 capitoli-sequenza,

scritti nel “diario” di Nino (voce narrante del

romanzo), istantanee di una quotidiana sopravvivenza,

sorprendentemente vicine al

neorealismo Pasoliniano, si fonde con il carattere

squisitamente letterario, reso attraverso

l’accuratezza della scrittura, poiché rimane

intatta l'elaborazione letteraria dei

termini dialettali campani, qui trascritti con

le giuste regole segniche dell’elisione. Le forme

espressive gergali (l’uso dell'erroneo ausiliare

“avere” ad esempio) risultano quindi

veraci e credibili. Nel complesso un italiano

artisticamente vicino a quello di Gadda

e Camilleri. «Ho arbitrariamente deciso

di non sottrarmi al codice deontologico di un

autore - afferma Del Giudice - ossia inverare

i propri personaggi»; ecco quindi spiegato

come questo, seppur breve, spaccato di vita

così autenticamente ritragga la realtà. A

colpire la violenza che permea la vita di Nino:

quell’abuso che, a pagina 67, sconvolge

il precario quanto delicato equilibrio in cui

(sopra) vive. “Incagliata”, fisicamente e moralmente,

l’anima di Nino ben si chiarisce

con la metafora del “fiore di loto” tanto bello

eppure circondato da lerciume. Tuttavia

il tanfo non nausea l’innocente protagonista

a cui però è bene non associare né una facile

retorica né una descrizione ordinaria

del disagio provato. La sua parlata spontanea,

che tanto ricorda gli studenti descritti

da Marcello d’Orta, pone l’accento su episodi

ironici ma mai grotteschi. Mirabile la bravura

della penna di Del Giudice: «è stimolante

 per uno scrittore scandagliare i propri

ricordi per riprodurre qualcosa che lui stesso

ha provato»; credibilissimo nella regressione

alla mente di un bambino di dieci anni,

presa solo dal presente. Dopo alcune ottime

prove letterarie di genere poliziesco e

noir, arriva questo piccolo gioiello di 149 pagine

che ben si presta ad una lettura insolita

e pregevole: la sua è pura invenzione che,

però, si fa denuncia dell'attuale situazione

sociale. E ai tanti Nino che oggi esistono l’appello

a chiedere aiuto a chi non usa la violenza

ma il dialogo.

 

 

 

Luigi De Luca - Redazione Aphorism.it (18-05-2006)
 

 

Attilio Del Giudice torna in libreria. Questa è una bella notizia che apre la nostra recensione. Due anni dopo Bloody Muzzare’, che ha chiuso la trilogia dei tutori dell’ordine De Grada e Capece, arriva il nuovo lavoro ancora edito da Leconte. Una bella edizione, curata, con 149 pagine ricche di vicende raccontate in capitoli brevi e densi. La struttura narrativa pare smembrarsi dall’insieme, vuole dilaniarsi, per raccontarci quanto più possibile la vita del protagonista, in tutti i suoi aspetti. Ed è un piacere trovare Del Giudice ancora impegnato a giocare con l’italiano, questa volta in maniera ancora più profonda: lascia che a “scrivere” la vicenda sia il protagonista, Nino, un bambino di quinta elementare che si racconta come se componesse il suo diario segreto. Gli occhi di questo bambino, e il suo cuore, ci porteranno nella provincia campana, un territorio che spesso sanguina e che il nostro Attilio conosce bene. Nino intinge la penna in un italiano incerto, ricco di elementi presi in prestito dal dialetto, co-protagonista assoluto delle vicende narrate. Così, tra violenza ordinaria, squallore, prepotenza e codici d’onore della malavita organizzata, un bambino si muove a metà strada tra i suoi coetanei e il mondo degli adulti. Tra l’innocenza genuina e un po’ smaliziata di chi è costretto a crescere in fretta, e le perversioni dei grandi, sempre alla ricerca egoistica di soldi, piacere e potere. Nino sembra non capire la sfida che l’attende: dovrà scegliere, un domani, se ereditare l’esperienza e la fama del padre padrone o prendere la sua strada fatta di sogni e dolcezza. Quella tracciata dalle due dolci figure femminili di cui è perdutamente innamorato: la mamma e la maestra. Noi tifiamo per Nino, perché è buono, perché rappresenta una speranza per tutti, perché solo nell’ultimo capitolo Del Giudice ci fa capire cosa significa “la vita incagliata”, lasciandoci a bocca aperta. E allora sì, non ci resta che sperare…

 

 


 Il Paradiso Degli Orchi  (Rivista di Letteratura Contemporanea)

Recensione di Marco Lanzol

La vita incagliata

Leconte, Pag.149 Euro 15,00

 Fotografia (Tano D’Amico?). Bambini di Palermo che giocano al “morto ammazzato” - stesi sull’asfalto del cortile, col gesso si fanno disegnare intorno la sagoma del proprio corpo, come si vede nei rilievi eseguiti dalla polizia per stabilire la posizione dei cadaveri.
Notizia. Non gran tempo addietro, si seppe di un tredicenne di Scampìa (non un chierichetto: stava facendo una rapina) ucciso da un agente dell’ordine. Poco dopo, in rassegna stampa, un articolo (prima pagina, una colonna di spalla) su un quotidiano padano s’intitolava: ”Adesso non si può più neanche uccidere un baby-delinquente!” Perché esistono i “bambini” - teneri, dolci, minacciati: un incrocio tra
profiteroles e panda, insomma - e i “baby delinquenti”. Che sono un’altra cosa. Una cosa che si può anche ammazzare.
Benvenuti dunque i libri come questo di cui parlerò. Perché poco può fare un libro, ma almeno cerca di restituire umanità a chi se la vede tolta dal mondo (e dalle signore Babebibobù della stampa ”libera”). Perché propone, com’è debito pagare dalla letteratura, una vita in una studiata lingua che le si attagli (quando ci riesce), dunque rendendola forma (cioè limite, confine, contorno). Perché, ad onta del fatto che di certe storie sembra tutti sappiano tutto, bisogna raccontarle ancora e ancora, sicché ogni particolare si delinei in pieno, dato che può essere usato da qualcuno per mentire, cioè per deformare il complesso (direbbero i chimici) di vita e lingua, ovvero di senso e significato.
Per quest’ultima, trattando di Sud camorrista, il mazzo di carte che l’Autore rimescola è completo: c’è la ferocia ininterrotta dei criminali, che domina ogni aspetto della propria vita e dei rapporti con gli altri, fossero anche i famigliari (la moglie sgrommata di sangue a ogni occasione: il figlio “imparato” a sparare, unico momento, assieme all’uso del rasoio per la barba e “per qualche altra operazioncella” (p. 102), d’intimità); l’ipocrita collusione dei manutengoli politicanti, ricattatori protervi e insaziabili, sazi solo d’impunità; la donna, come l’uomo, chiusi in ruoli intrasgressibili, ben più incamicianti del
burqa - ogni maschio ladro e molestatore, ogni donna moglie o zoccola; la viltà e più ancora l’annullarsi - cementati da secoli di sciagurata oppressione - delle povere pecore che devono vivere in mezzo ai lupi, che belano dinanzi alle loro zampe, incapaci persino di lamentarsi quando sono dal barbiere; lo sfruttamento del lavoro - con la sopravvivenza dei caporali a stravincere sugli uffici di collocazione - i cui frutti vengono taglieggiati se non depredati fino all’ultimo soldo; uno Stato colabrodo, che offre solo pomposi e inutili discorsi nelle scuole da parte di maestri e “psicòli” (psicologi), burocratici scaricabarile tra gli uffici ripittati d’un europeismo ridicolo, squallidi ospedali dove il sudiciume dei luoghi suggerisce l’incancrenirsi della malasanità - uno Stato per cui l’unica tiepida efficienza é nel reprimere poliziottesco, ma incapace di far volare altro che stracci (prostitute africane, pastori slavi).
Però, fra coteste carte nere, ecco la matta dorata: Nino, che frequenta l’ultima classe elementare, e che è, lui figlio d’un lupo camorrista, agnello sognatore - pure se contaminato (l’ambiente non determina ma fa capitare): fa commissioni per il padre, e temendolo lo ammira (p. 101). Essì: Nino è buono, tant’è che spesso e volentieri il padre lo qualifica di “strunzo” - e anche Michele, coetaneo e amico, ogni tanto ha dei dubbi su di lui, sicché gli dà del “filosofo”. (p. 121) Ma l’incertezza non coinvolge la sfera sessuale: i due porceddùzzi si ammazzano di pippe sulle riviste porno, e sui rotocalchi dove quelle “della televisione” stanno “tutte con le zizze da fuori che fanno arrapa’” (p. 102); s’inguattano per vedere le ragazzette nude e le monte delle puttane nere come le bufale da latte; e svicolano dalle avances di un ricco pedofilo che vorrebbe conquistarli per pochi soldi - i due furbacchioni fregandogli perdipiù un costoso zìppo. Ma in tale canaglieria, Nino distingue un’emotività più profonda, quella per la maestra bona e dalla parlata “tìschitòschi”, ovvero settentrionale - che, pur manifestandogli un affetto manierato e zuccheroso, predilige un allievo più grande.
Bene: in questo
Cuore di tutti Franti sorge questo disincantato e spaurito Muratorino a fare da controcanto, col grave compito di passare integro fra i rulli d’acciaio dell’ambiente-laminatoio in cui si ritrova a vivere. Ci riesce - riesce a disincagliarsi, a uscire dalla morta gora delle vite a rischio, in cui si viene uccisi ragazzini col plauso delle biondone nordiste? L’Autore non lo dice: dà per sicura la fine per ammazzamento del padre, ma di Nino lascia il dubbio che sopravviva all’agguato, a voler sottolineare come in Italia (non nel Ruanda, o nella Columbia de La vergine dei sicari) ci siano posti dov’è chiesto di morire per vivere.
Parlando ora della forma che realizza la materia lucidamente oscura, l’Autore assume il suo eroe come antagonista e narratore, e l’offre al Lettore in una lingua ambigua, né italiana né napoletana, ma napoletanesca (il dialetto si cala nella lingua non per contaminarla, ma come vaccino che ne suscita anticorpi e la fortifica - anche se c’è sempre il rischio dell’adulterazione glocalistica alla Marcello D’Orta), che rende visibile nella sua doppiezza il conflitto tra il mondo ferino ma reale dei rei, e l’iperuranio istituzionale delle “parole giuste”, quelle (ben settantamila!) che stanno nel vocabolario d’italiano che mamma Lupa compra al suo lupacchiotto, perché ci tiene che suo figlio “s’impara” - ansiosa d’una normalità che lui si sforza di raggiungere, tanto da discutere (analitico) con Michele dei motivi che fanno una parola “giusta” o “sbagliata”. Quello, pragmatico, gli ricorda che sono decisioni da “scienziati” - ne abbiamo fatto conoscenza, nel testo, sotto le spoglie dei “pisicoli” (psicologi). Sottintendendo: la partita l’abbiamo persa, diversi ci giudicheranno, sui loro metri un poco artefatti risulteremo sempre fuori misura, sempre vinti. Sempre figurine o di presepe o di teatro crudele, (in)espresse dalle “meglio parole”, quelle “che non si dicono”. (p. 87) Parole di realtà, segni su segni come corpi su corpi. Come il segno di gesso - a contorno del corpo - su una strada.
Marco Lanzòl

                                                                

 

IDEALIA  (LETTERE CIRCOLANTI)
   di   SERGIO SOZI

Modeste glosse a La vita incagliata di Attilio del Giudice (Leconte, Roma 2006)

 Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l'abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s'ispira in un modo o nell'altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ''correntoni'' attuali.

Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana minimum fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Leconte. E come mai rappresenterebbe un'operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata, uscito pochi mesi fa? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l'aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L'aspetto strettamente letterario è l'accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l'elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell'elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell'erroneo ausiliare ''avere'', del pronome personale ''ci'' per ''gli'', ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.

         Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d'età (un bambino che sarebbe l'alter ego di Giamburrasca - tanto egli resta scanzonato e puro - se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un'Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l'incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l'ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all'Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.

Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell'esagerazione e dell'iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all'apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell'infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.

E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell'egoismo e nell'inciviltà. Sergio Sozi

 


    dal  BLOG de IL MESTIERE DI SCRIVERE

di LUISA CARRADA

 

Delle parole e delle immagini di Attilio Del Giudice ho già parlato qualche tempo fa sul MdS. E il link al suo sito è tra gli Amici nell'indice di destra di questo blog.
Le sue espressioni verbali e visive sembrano ritagliate sul nostro stile di vita, fatto di ritmi vorticosi che spesso ci vogliono privare del piacere della lettura lenta e lunga. 
Attilio - a dire il vero - è un tipo pacato e tranquillo, scrive testi intensi e brevi e dipinge al pc piccoli quadri che fanno immaginare intere storie. Concentrati di parole e di colori che ti colpiscono in pochi secondi, entrano in te velocemente, anche se poi ci restano a lungo. Espressioni per tempi veloci, a misura di schermo di computer.
Anche i suoi romanzi hanno capitoli brevissimi. Nell'ultimo,
La vita incagliata (Leconte, 15 euro), sono i momenti, gli sguardi e i pensieri di un ragazzino (dieci anni o poco più), casertano e figlio di un camorrista. A raccontarli dall'interno è Ninuccio stesso, con il suo linguaggio che mescola il dialetto, l'italiano della scuola, le male parole orecchiate dai grandi.
Ninuccio - che sembra crescere insieme alle pagine del libro - è un candido, innamorato della sua maestra e ancora sensibile e incorrotto pur a contatto quotidiano con una violenza primitiva.
Una storia a episodi, non sequenziali e non concatenati. Nessuno raggiunge le due pagine. Squarci di vita meridionale, tinti di rosso e traboccanti di sentimenti forti, con la morte che si affaccia ad ogni angolo.
Tra i personaggi spicca Angelina, la mamma di Nino, che compra ogni giorno un mazzo di rose per la figlioletta annegata anni prima e soffre con grande dignità le umiliazioni e le “sgummate” del disgraziato marito. Un’anima pura.
Nino la adora e noi, dopo un paio d’ore di lettura adoriamo lui, il suo candore struggente, senza sapere come finirà la sua vita incagliata. Non importa. E’ la storia di tanti ragazzi del Sud, raccontata nel momento in cui gli esiti possibili sono infiniti.

 

 

                     Sepanet - Cultura & Spettacolo  Libri

Recensione del libro "La vita incagliata" di Attilio Del Giudice

di: Sergio Palumbo

Titolo: La vita incagliata
Autore: Attilio Del Giudice
Editore: Leconte
Pagine: 149
Prezzo: Euro 15,00

Nino è figlio di un camorrista. Nel suo paese in provincia di Caserta i più lo conoscono come "o' figlio e' Sigaretta". Altri, invece, come la madre, la maestra, l'amico Michele, sanno bene che Nino, nonostante il difficile contesto in cui vive, è un ragazzo dall'eccezionale sensibilità. Una vera e propria rosa fiorita nel cemento.
Attilio Del Giudice lascia la penna proprio a Nino, che con il suo italiano incerto, contaminato da strafalcioni e da inflessioni dialettali, ma con intima e profonda sincerità, scrive il suo diario, fatto di aneddoti, pensieri, sentimenti.
Tra violenza, prepotenza, criminalità, degrado morale e culturale, la purezza di questo ragazzo, la sua bontà d'animo, la sua dolcezza, sono la speranza di un futuro migliore, quel barlume di probabilità che questa vita incagliata e tutte le vite che Nino simboleggia, si possano finalmente sciogliere, sbrogliare, liberare del giogo in cui sono, loro malgrado, nate e cresciute.
Il libro di Attilio Del Giudice, organizzato in brevi racconti di vita vissuta, mette in risalto la geniale abilità dell'autore a giocare con le parole, con la sintassi, con la lingua italiana, contaminandola così bene con il dialetto di Nino e le sue sgrammaticature, ma non solo: Del Giudice è straordinariamente bravo nel guardare il mondo con gli occhi disincantati del bambino innamorato della maestra e della mamma, che il padre (quando non lo chiama "strunzo") usa come corriere per la consegna di misteriosi pacchetti e che deve continuamente lottare per non far contaminare la sua purezza con lo squallore del mondo che lo circonda.



 

 

 

 

 hobevutoassenzio    

ma non è questo il punto     L'OffiL'Officinacina   M

L'Officina

Il laboratorio politico culturale

 

 

Novembre 2006     "La vita incagliata", romanzo di Attilio Del Giudice (Leconte, 2006). 

 RECENZIONE di   IVANO STELLUTO

 

“In piazza c’è stata una sparatoria, come nei cinema di sceriffi e la televisione ha parlato un sacco di questo fatto, che c’è stato una vittima innocente e questa vittima innocente era Rituccia”.Sembrano righe prese dalle cronache degli ultimi giorni, tra le strade di Napoli, arterie che tornano a parlare, troppo puntualmente e troppo ciclicamente, la lingua del sangue, in questa città dove scorrono lacrime che tingono di noir la quotidianità.Fino alla vita. Che è troppo spesso sofferta, stretta, repressa.“La vita incagliata”, romanzo del casertano Del Giudice,  è esplorare la vita della manovalanza, è scendere fino nei sobborghi dei sentimenti delle famiglie in odore di criminalità, è toccare le periferie e i centri dei rapporti tra affiliati; il lavoro di Del Giudice è riconoscere il camorrista come persona, è scandagliare i centri nevralgici della sua esistenza, di figli e mogli.Il compito più ostico è capire dove inizi e dove finisca la normalità.Nino, protagonista del romanzo, è figlio di Don Alfonso, genitore in odore di camorra, ma ragazzo come tanti, “normale” appunto: frequenta la scuola, passa i pomeriggi con Michele, il suo migliore amico, si invaghisce dell’insegnante venuta dal nord fino a confessare “io, quando mi faccio grande, mi voglio sposare alla maestra, che parla tischitoschi”; è, questa, la lingua settentrionale, idioma altro dal dialetto di Nino.La lingua del nord e del sud, e poi il vocabolario di Don Alfonso, dell’Onorevole e del Ragionieri: forse è qui che si pone una barriera, che si intravede un muro a spezzare i rapporti tra molteplici normali: nel linguaggio, in quella forma esclusiva di rapporti che pesca i propri termini dai codici del rispetto e dell’onore: “a disposizione”, “state tranquillo”, “una buona parola”.C’è come un’efficienza, nel muoversi di questi personaggi, che sembrano tenere in pugno le redini e i destini del mondo; figure e figuri che hanno in scacco anche le lingue e i pensieri di chi li circonda, vittime predestinate di un potere patriarcale secondo il quale le parole non dette, probabilmente, sono le migliori.È qui, non altrove, che si cementa il rapporto tra Nino e sua madre: affetto, solidarietà, e le rose per Nennella, povera bambina andata via troppo in fretta per accendere un pensiero su questo mondo tornato a tingersi, ancora,  di rosso sangue. (Ivano Stelluto)

 

 

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 Articoli Letteratura contemporanea

La vita incagliata

Silvia Pellegrini - 21.12.2006

Nino è il piccolo e scanzonato epicentro di un terremoto sociale. La sua famiglia, infatti, è composta da Alfo', l'irascibile padre camorrista, e da Angelina, la buona mamma che sopporta gli umori del marito e il pesante fardello di moglie di un criminale. Nella famiglia è inoltre presente il ricordo di Nennella, sorella maggiore di Nino, tragicamente affogata nel fiume ma mai dimenticata dal cuore di sua madre.
Questi i protagonisti de La vita incagliata di Attilio Del Giudice.

Per Nino è del tutto normale convivere con il pesante ruolo del padre, ruolo misterioso ed enigmatico ai suoi occhi di bambino. Attraverso le preoccupazioni e gli ammonimenti di mamma a non imitarlo, Nino sa che il lavoro del padre non è pulito ma, allo stesso tempo, si accorge di quella sacralità che il genitore diffonde o incute sugli altri.
Sono molte le persone che si recano in pellegrinaggio in casa di Nino per chiedere favori a Don Alfo': l'Onorevole e l'Avvocato sono due ottimi esempi. Agli occhi del bambino, i due sono identificati dal loro ruolo sociale: non hanno nome né cognome - o forse sono attenti a non farlo pronunciare - ma sono amici di papà.
Parallelamente a quella del padre, scorre la sua giovane vita: Nino è un bambino normale che ama combinare guai in compagnia del suo amico Michele. Le sue giornate passano tra i compiti di scuola, l'innamoramento per la nuova maestra e i primi giocosi approcci con il sesso.
Eppure ci sono alcune dissonanze in tutta questa normalità: ad esempio, una bambina della quale Nino si infatua muore in un regolamento di conti fra clan. La mente di Nino elabora il fatto, lo ricorda spesso ma reagisce con la stessa rapidità che ha nell'accettare una mancia dall'Avvocato, ringraziamento per aver consegnato con puntualità un misterioso pacchetto proveniente da Don Alfo'.
Nino non si sofferma ad analizzare il ruolo del padre perché un bambino non sta a rimuginare sulle abitudini di una famiglia, della sua famiglia.

La sua è una vita incagliata tra la legalità predicata e raccomandata dalla mamma e il crimine rappresentato dal padre. Ad una più attenta lettura, però, sarà chiaro che Nino è compresso tra due ostacoli ben più grandi dei ruoli dei genitori: solo allora la struttura del romanzo sarà comprensibile. Pur avendone alcune caratteristiche, infatti, la storia di Nino non è un diario personale ma sarà Nino stesso a lasciar intendere quale sia la ragione di un simile titolo.
La veracità del dialetto nel quale il protagonista si esprime è un ottimo strumento per catturare l'attenzione di chi si immerge nella storia: la comprensione dei termini è la chiave per conoscere Nino e il suo mondo in cui l'abuso è legge. Nino però non permette una facile retorica né una descrizione banale del disagio: la sua parlata genuina, che ricorda Gadda e gli studenti descritti da Marcello d'Orta, dipinge episodi ironici ma non grotteschi.
E' notevole l'abilità della penna di Attilio Del Giudice, credibilissimo nella regressione alla mente di un bambino di dieci anni, la cui vita è preoccupata solo del presente.

Dopo alcune ottime prove letterarie di genere poliziesco e noir, il romanzo di Del Giudice è un'opera insolita e pregevole: la sua è pura invenzione che, però, si fa denuncia di una realtà probabile nell'attuale situazione sociale.
Più di ogni spiegazione, infine, vale la postfazione di Francesco Piccolo: come Del Giudice, è anch'egli un instancabile lottatore contro le prevaricazioni e gli abusi. Sono queste ingiustizie ad incagliare la vita di chi, come Nino, avrebbe la speranza di crescere nella legalità e nel rispetto di sani valori. Se non fosse, purtroppo, per il volere di pochi.

Titolo: La vita incagliata
Autore: Attilio Del Giudice
Prezzo: 15 euro
149 pagine
Editore: Leconte

 

 

LE PRESENTAZIONI

           

ROMA  VIA DEI FIENAROLI,28

BIBLI

 

Mercoledì 31 Maggio, ore 21,00

Libri
Presentazione del libro "La vita incagliata" di Attilio Del Giudice, Leconte Editore.
Intervengono
Francesco Piccolo e Antonio Pascale.

Nino vive in campagna nel Casertano, fa la quinta elementare. E' lui a raccontare la sua passione per la maestra scesa da Forlì, i suoi rapporti con la madre premurosa e il padre camorrista, la sua amicizia con Michele. Ecco il suo mondo, inquinato dal sopruso e scandito da un linguaggio che mostra rispetto per la realtà orale di questa porzione di sud. Un linguaggio che in qualche modo nazionalizza il dialetto per approdare a un italiano deformato, spesso esilarante, di certo evocativo quanto il peso di uno sguardo o il colore della terra macchiata dal sangue. Un autentico idioma d'agilità gaddiana, capace di fare delle
storie di Nino una struggente metafora della solitudine meridionale.

Attilio Del Giudice, casertano, è tra i protagonisti dei gruppi d'avanguardia campani negli anni '70 e '80. Dopo i racconti di Storie terrestri e non ed Eventi precipitati, approda al romanzo Morte di un carabiniere (1998) e Città amara (2000), pubblicati entrambi da Minimum Fax, sono i primi due volumi della trilogia che si chiude con Bloody muzzare (Leconte 2004). Suoi scritti sono apparsi nell'antologia Pomeriggio/Afternoon (Leconte 2001), su Storie, Aphorism e nel sito www.attiliodelgiudice.com
 

 

 

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